Il sangue dei fratelli

Italici contro romani, aristocratici contro populares

ANTEPRIMA PAGINE

Parte prima
LA GIUSTIFICAZIONE

I tarquini - Emma Pomilio, libri Mondadori

 

CAPITOLO I

Anno 662 ab Urbe condita (91 a.C.)
Negli ultimi mesi c’era stata molta violenza. A notte fonda i clamori di Roma ancora non si affievolivano. Ascoltavo le voci concitate e le grida che provenivano dal Foro e non riuscivo a prendere sonno. Ero sdraiato sulla mia stuoia ai piedi del letto di Marco, che dormiva tranquillo, e mi chiedevo come facesse, sapendo che le minacce e gli insulti erano diretti alla sua famiglia. I progetti dello zio di Marco, il tribuno della plebe Druso, avevano toccato gli interessi di tanta gente. I suoi nemici lo accusavano di aspirare alla tirannide e questo pareva un buon motivo a tutti noi della famiglia perché qualcuno potesse ritenere che era vissuto troppo a lungo. Il nostro cubicolo dava su un corridoio interno, ma una parete confinava con l’atrio; io appoggiavo l’orecchio al muro sottile per ascoltare. Qualcuno si scomodò a risalire dal Foro per venire a lanciare minacce di morte direttamente di fronte all’ingresso. Ormai era un fatto frequente. Potevo immaginare il nostro ianitor Demetrio, grande e massiccio sulla soglia a braccia conserte, impassibile, con una pesante daga al fianco. Ma che avrebbe potuto contro una folla inferocita? Quando rincasò il dominus, Tito Livio Druso, mi giunsero i rumori consueti al suo ritorno. Mentre un cameriere gli sfilava di dosso la toga, il padrone comunicava gli ordini per l’indomani al liberto Livio, allo stesso tempo faceva un laconico resoconto degli ultimi avvenimenti alla cameriera di sua madre, che avrebbe riferito alla padrona nelle sue stanze. Non capivo del tutto le sue parole, ma conoscevo bene ogni inflessione della sua voce, e compresi che lui si imponeva la calma. Gli uomini della scorta svolgevano le stuoie, preparavano i giacigli negli angoli più riparati dell’atrio e intanto commentavano a bassa voce i fatti della giornata; ma nei loro bisbigli si percepiva l’eccitazione. Demetrio cominciava ad accostare i pesanti battenti... «Fermo! Lasciami entrare» urlò una voce aspra, e uno dei battenti cozzò contro il muro. Le pareti del nostro cubicolo tremarono.
«Il tribuno è stato pugnalato» disse ancora la voce, e riconobbi un forte accento marso. Era un uomo della scorta del tribuno Druso, il cugino del padrone. I Marsi si erano raccolti in gran numero a Roma per difendere Druso, che sosteneva gli interessi degli Italici. Infine i tumulti avevano trovato sbocco nella violenza. Tirai giù dal letto Marco e lo trascinai confuso e barcollante verso l’atrio. Io, piccolo schiavo curioso, troppo piccolo perché mi si affidassero mansioni in quel frangente, avrei avuto il diritto di trovarmi vicino al padrone solo se ci fosse stato Marco. Ero la sua ombra. Sbucammo per primi nell’atrio oscuro, ma dopo un attimo fummo circondati da una folla sbigottita di uomini mezzi nudi e donne scarmigliate, a cui il liberto Livio impose il silenzio con un breve gesto. Il Marso indossava un corsetto di cuoio indurito sotto un mantello corto. Era un uomo prestante e orgoglioso, ma di fronte a Tito Druso mostrava un atteggiamento molto deferente, dovuto, si vedeva, a una grande stima. «Parla» disse con un moto d’impazienza il mio padrone. «È morto?»
«No, ma è ferito gravemente, perde molto sangue, ho visto solo questo e sono corso a informarti. È stato colpito all’inguine con un coltello da calzolaio, di quelli ricurvi, per tagliare il cuoio. I chirurghi sono stati chiamati.»
Da tempo il tribuno Druso, minacciato di morte, usciva pochissimo, riceveva in casa, nel suo atrio aperto a tutti. «Si sa chi è stato?» chiese Tito Druso, mentre a un suo cenno lo schiavo cominciava a drappeggiargli di nuovo addosso la toga. «No. Il sicario si è confuso nella folla dei sostenitori. L’atrio era piuttosto buio... chissà, forse l’assassino è ancora lì. Sono venuto qui anche per dirti a nome mio e degli altri che vorremmo trasferire le nostre speranze su di te, vorremmo che tu prendessi il posto di tuo cugino, tu porti il suo nome... ci fidiamo più di te che di suo figlio adottivo.»
«Non siete riusciti a difendere lui e mi chiedete questo?» ribatté il padrone.
«Comunque vedremo. Adesso devo andare.»
«Sii prudente, noi confidiamo in te e...» Il Marso non poté finire, perché il mio padrone glielo impedì con un gesto imperioso. Si avviò alla porta. In quel momento si udì un clamore improvviso, vicinissimo e più intenso, che sovrastava tutti gli altri. Demetrio fece per chiudere il portone, ma comprese che non ci sarebbe stato il tempo di serrare i chiavistelli. Così, mentre compariva una gran folla, tornò al suo posto alla sommità dei gradini sulla soglia del vestibulum e rimase a braccia conserte.

I sostenitori dei nemici del tribuno Marco Livio Druso erano giunti in forze, euforici per il gesto del sicario. Era plebaglia, che qualcuno manovrava dall’alto senza mostrarsi. In quel momento tutti pensammo che fossero venuti per uccidere anche il padrone. Una schiava annunciò: «Porcia è qui». Porcia si era fermata di fronte al tablinum. Tutti si fecero da parte per non impedirle la visuale, il padrone si voltò e madre e figlio si guardarono un attimo. Credo che fosse troppo buio, e loro erano troppo distanti, perché ognuno scorgesse dell’altro più della figura, ma lui sapeva benissimo che Porcia gli ingiungeva con lo sguardo di fare il suo dovere, anche a costo della vita. Ebbe solo qualche attimo di indecisione, in cui controllò istintivamente che le pieghe della sua toga ricadessero alla perfezione, da buon Romano prima di affrontare una situazione che richiede il massimo delle sue capacità, e continuò a camminare verso la porta. Mentre gli altri osservavano l’intesa silenziosa di madre e figlio, Marco si svegliò completamente, partì alla riscossa e si avvicinò al padre. Io, dato che tutti erano abituati a vedermi sempre alle sue calcagna, feci altrettanto e mi conquistai un posto ottimo per guardare, al centro degli avvenimenti, cercando nello stesso tempo di non sembrare troppo invadente e di assumere una certa aria stolida e indifferente, appropriata per uno schiavo senza grandi mansioni.
«Stiamo chiudendo» disse Demetrio ai cinque o sei caporioni, che lo avevano attorniato affollando il vestibulum. Quelli estrassero i pugnali e lo assalirono in tanti senza dargli alcuna possibilità di usare la daga, lo colpirono più volte e lo fecero ruzzolare sui gradini fino alla strada, poi oltrepassarono il portone e in un attimo superarono le fauces d’ingresso che immettevano nell’atrio. Entrati, si fermarono qualche istante per guardarsi intorno e decidere cosa fare. Le alte colonne, le statue intorno al compluvium e alcune piante in vaso li separavano dal padrone e da noi ragazzini. In quel momento terribile di incertezza e di paura Tito Druso si sentì toccare e vide vicino a sé Marco, il suo unico figlio, che portava lo stesso nome del tribuno. Forse gli sovvennero le parole del Marso: Abbiamo più fiducia in te, che nel figlio adottivo del tribuno. Si era fatto una fama pericolosa, per sé e per suo figlio. Ebbe un sussulto, perdendo per un istante la sua impassibilità. Si voltò a cercare Livio, ma Livio non aveva bisogno di esortazioni del suo patronus, era già arrivato come un lampo accanto a noi, afferrò Marco per un braccio e lo trascinò lontano. Io stavo per seguirli, ma mi sentii prendere la mano: era il padrone che mi teneva saldamente. Non sapevo perché, pensai che volesse punirmi. Ero terrorizzato, alzai la faccia e tentai di sollevarmi più che potevo per guardare il suo volto, ma lui non faceva caso a me, i suoi occhi erano fissi sulla folla. Gli aggressori ancora si stavano guardando intorno in silenzio. Ci misero più che qualche momento a decidere il da farsi. Alcuni furono presi, ne sono certo, da un attimo di sacro timore reverenziale mentre il loro sguardo si perdeva nel grande atrio, dai soffitti alti e scuri, che conservava ancora pitture e arredamenti antichi e un po’ fuori moda e gli armadi con le maschere degli antenati. Devono aver pensato ai tanti Romani illustri che lo avevano frequentato, alle tante decisioni che erano state prese sotto quel tetto. Si consultarono bisbigliando, ma da dietro altri li spingevano e li fecero arrivare al centro, riconducendoli al presente e alla dura necessità di procacciarsi il pane. Molti uomini entrarono dietro di loro, non solo i soliti sfaccendati che si vendono nel Foro al miglior offerente, anche artigiani e commercianti, tutti ugualmente infuriati contro i Drusi. Qualcuno sollevava il mantello per mostrare i coltelli alla cintura. Gli uomini della scorta erano un passo dietro di noi, ma erano solo otto contro forse un centinaio.
C’era anche il Marso, che aveva già estratto il gladio e di sicuro sapeva usarlo, il liberto Livio e lo schiavo Lusio si sarebbero battuti, ne ero certo, ma erano sempre pochi. Gli altri sarebbero corsi a nascondersi. Non ci voleva molto nemmeno per me a fare questi calcoli, e a quel punto compresi perché il padrone mi teneva per mano. Si era stabilito un silenzio profondo, carico d’attesa. Il mio padrone riprese a camminare dritto ed elegante incontro alla folla minacciosa stringendomi la mano con forza, come per comunicarmi di lasciar fare tutto a lui, non prendere iniziative o me ne sarei pentito.
Non sapeva che mai io avrei preso in considerazione l’idea di fuggire e deluderlo e nemmeno avevo paura; pensavo solo a godere dell’insperato contatto con la sua mano grande e ferma. Era un uomo molto prestante; io, per quanto fossi grande per la mia età, non gli arrivavo alla spalla. Aggirando le piante e le colonne, ci fermammo a un passo da loro, ne potevo sentire il fiato avvinazzato sul volto. Il padrone non permise che parlassero per primi. «Benvenuti» disse.
«Ma perché venite a quest’ora di notte? Io, come i miei avi prima di me, ricevo tutti i giorni all’alba i miei clienti e chi mi vuole chiedere pareri e favori, o la mia difesa in tribunale. Tornate domani, e mi troverete pronto ad ascoltarvi. Inoltre è successa una cosa gravissima, mio cugino Marco Livio Druso è stato ferito e io devo andare da lui.» Accadde qualcosa. Dovevano essersi incitati l’un l’altro a uccidere subito il mio padrone, ma rimandarono a un’occasione più propizia, ricominciando a minacciare e mostrando i pugnali.
«Bene, hai saputo di Druso» disse uno, «e noi siamo venuti ad avvisarti del fatto che anche tu corri dei gravi pericoli. C’è tanta gente scontenta delle leggi del tribuno e noi siamo pronti a ucciderti, se tu vorrai portare avanti il suo programma.» «Il tribuno stesso porterà avanti il suo programma» disse con calma il padrone. «Questo non è detto. Sembra che il tribuno sia davvero ferito gravemente.» «E allora, se lui non potrà, farò il mio dovere. Il programma del tribuno Druso vuole l’accordo degli ordini e la pace con gli Italici, e io sarò onorato di portarlo avanti.»
«Se lo porterai avanti morirai» urlò qualcuno che stava appena fuori del portone. La plebe romana riteneva di avere un’unica prerogativa: la cittadinanza, e non voleva dividerla con gli Italici. Ne è passata di acqua sotto i ponti, ma a quei tempi era una cosa elementare per chi abitava a Roma, la sapevo da quando avevo cominciato a capire qualcosa. Un altro dei caporioni, che non era ancora riuscito a entrare nell’atrio, ma si trovava vicino al portone, salì su un vaso di fiori e si mise a urlare sporgendosi verso l’esterno per farsi sentire dalla folla nella strada. «Avete capito che sta succedendo là dentro, gente? Druso parla ancora di dare la cittadinanza agli Italici. La lezione non gli è bastata. I nostri si stanno facendo imbrogliare. Questi Drusi sono come la gramigna: fatto fuori uno ne spunta un altro. Non vi hanno insegnato niente i Gracchi? Facciamola finita adesso! Entrate tutti!»
Dall’esterno cominciarono a spingere e a urlare. Sentii la mano del padrone quasi stritolare la mia e la familia urlare di terrore alle nostre spalle. Ma accadde di nuovo qualcosa. «È arrivato Lelio!» si sentì gridare nella folla. L’euforia scomparve. Quelli che erano riusciti a entrare avevano già perso parte della loro arroganza di fronte al coraggio del padrone, cominciarono ad arretrare e poi si voltarono per uscire, anche se quelli che stavano fuori ancora li spingevano per entrare a loro volta. Si misero tutti a discutere, mentre le urla aumentavano di intensità. «Che vuole Lelio da queste parti?» si sentiva vociare nella calca. Intanto altra gente infervorata si era riunita davanti al portone, la folla cresceva. Ma in quel momento Lelio, che io non riuscivo a vedere, mostrando coraggio e decisione, si infilò tra la marmaglia scompaginandola. Gaio Lelio era il nostro vicino, la sua casa confinava con la nostra per un lungo tratto. Non era un soldato Lelio, era un uomo d’affari che, per quanto se ne sapeva, non aveva mai preso in mano un’arma, ma con un gladio in pugno fendeva la folla minaccioso.
Guardai il volto del padrone: pareva stupito della mossa di Lelio, era incredibile che venisse da noi in quel momento. Lelio comparve vicino all’ingresso e fece scostare i violenti che vi sostavano. A notte fonda era riuscito a radunare, oltre alla sua scorta abituale, alcuni schiavi di fiducia e liberti che abitavano nella sua casa, una ventina di uomini bene armati e temibili. Si creò un perfetto silenzio. Lelio salì sui gradini e, fermandosi sulla soglia, si voltò subito verso la folla nella strada, mostrando la spada. Senza alzare la voce, disse: «Tornate a casa, brava gente. Le vostre famiglie vi aspettano». Il silenzio perdurava e qualcuno cominciò a battersela cercando di non farsi notare. La folla scemava, i gregari e i curiosi se ne andavano. Rimasero in pochi, quelli pagati per assassinare e creare incidenti, ma compresero che l’operazione era fallita e se ne chiedevano la ragione; baccagliarono e discussero a lungo, accusandosi l’un l’altro di essere stati poco tempestivi. Qualcuno parlava di fare comunque qualche azione dimostrativa, anche se si era messo di mezzo Lelio. Ma intanto cominciarono ad arretrare, scivolando sul sangue di Demetrio che imbrattava i gradini, discutendo ancora sul perché la cosa non fosse andata in porto. Dicevano che Lelio era arrivato troppo tardi per essere stato determinante, proprio quel Druso solo e indifeso li aveva abbindolati, forse perché si teneva accanto il figlio.
«Tito Druso, devi la vita a tuo figlio!» urlò qualcuno. Dando infine la colpa del fallimento alla loro compassione verso i bambini, si dispersero alla spicciolata, e scomparvero nella notte. Quando il baccano si attutì in lontananza, il padrone sospirò, mi lasciò la mano e mi diede un buffetto sui capelli, forse d’approvazione. La vita riprese, nella casa. Gli schiavi corsero in strada a soccorrere Demetrio, ma Demetrio era spirato; lo trasportarono dentro e chiusero il portone. Io rimasi fermo, all’improvviso le gambe mi tremavano, la paura di deludere il padrone, che per la prima volta mostrava di notarmi, era stata troppo grande. Marco arrivò di corsa e si gettò nelle braccia del padre, che se lo strinse forte al petto e, tenendolo ancora stretto, andò a incontrare l’uomo che era giunto in suo soccorso. Appoggiò Marco a terra per abbracciare Lelio con grande calore. Come erano diversi quei due uomini... Il padrone alto e imponente, di aspetto nobile coi suoi gesti misurati e la toga perfetta, superbo solo quel tanto che era giusto e doveroso per i suoi natali. Lelio più piccolo, scuro, sempre in movimento, di lineamenti molto belli e voce suadente, che, si diceva, gli erano valsi l’eredità di una ricca vedova, l’inizio della sua fortuna. Era arrivato di corsa indossando la tunica un po’ stazzonata, con cui si era coricato. «Grazie, Lelio, amico mio» disse il padrone. «Gli amici si vedono nel bisogno. Sei più amico mio tu, di tanti che se ne vantano.»
«Tito Druso, la tua amicizia mi onora. Dove sono gli amici, là sono le ricchezze» così disse quell’uomo ricchissimo. Spesso faceva uso di massime.
«Come avrei potuto rimanermene al sicuro sentendo quello che accadeva qui?» «Tanti altri sono rimasti al sicuro» disse il mio padrone. «Non dimenticherò mai quello che hai fatto.» Il nostro vicino Lelio era un cavaliere, un furbo uomo d’affari e anche un grande collezionista, un amante delle cose belle. La sua vasta casa accanto alla nostra era stipata di statue e quadri provenienti dalla Grecia e dalla Sicilia, di splendido vasellame in argento e di oggetti d’oro, di stoffe e tappeti orientali. In politica stava con i populares, ma era un moderato, un fautore della concordia tra gli ordini; aveva fatto parte dei sostenitori del tribuno Druso e si era avvicinato anche al mio padrone. Infatti i due dicevano di essere più legati tra loro di quanto lo fossero ai rispettivi ordini. Lelio tolse il disturbo dicendo che ormai la plebaglia non sarebbe ricomparsa e che era bene che Tito Druso si recasse dal tribuno, mentre lui se ne sarebbe tornato prudentemente a casa. Non erano tempi quelli per andare in giro la notte. Il padrone andò a inchinarsi di fronte alla madre. Porcia gli accarezzò leggermente la testa. Era una donna di carattere chiuso, enigmatica, difficilmente l’avevo vista lasciarsi andare a effusioni. Non pianse e non commentò la grave disgrazia del tribuno, ma si dedicò a consolare la piccola Livilla, la sorella di Marco, che era spaventata a morte e le si aggrappava. Come al solito accanto a lei, pronto a ogni suo ordine, c’era Lusio, il suo schiavo di fiducia, furbo, robusto, scattante, eppure capace di stare fermo per ore al suo fianco senza muovere nemmeno un muscolo. Per suo conto scriveva e recapitava lettere, trattava con i fornitori, assolveva ogni incarico delicato. Mi sentii turbato quando notai che Porcia mi guardava insistentemente da capo a piedi con particolare interesse, come se mi vedesse per la prima volta, e mi sentii paralizzato, quando fece in modo di incontrare i miei occhi e mi accorsi che parlava di me con Lusio. Solo quando passò ad altro riuscii a muovermi e a riprendere fiato.
Tito Druso uscì per andare dal cugino, che abitava poco distante, accompagnato dall’inseparabile liberto Livio e con una scorta molto numerosa, accresciuta dal Marso e da alcuni uomini di Gaio Lelio. Mia madre mi venne vicino e mi abbracciò, bagnandomi il volto di lacrime, ma sentirmi circondato dalle sue braccia non mi confortava, lei era impotente quanto me. Si chiamava Sabina e in realtà era una delle schiave più benvolute in casa; vi era nata e questo per un padrone è importante, perché un bambino non sa nascondere la sua indole. Porcia l’aveva promossa al rango di prima ornatrix, un lavoro di responsabilità, era una delle poche cameriere ammesse nella sua camera a qualunque ora. Quando Porcia usciva di casa o passeggiava nel giardino, mia madre l’accompagnava con il parasole, sempre un passo dietro di lei, senza mai toccarla. A volte credevo che fosse niente altro che una sua appendice. Lei agiva e pensava solo in funzione dei Drusi e voleva cogliere tutto il meglio che potesse derivare da quanto era appena accaduto. «Sei stato bravo, il mio piccolo ometto coraggioso» mi disse. «Un altro se la sarebbe fatta addosso. Tutti lo hanno notato. E tutti hanno notato quanto somigli al padrone. Questo è un giorno importante, oggi hai difeso con la tua persona la vita di Marco, non permettere che se ne dimentichi. Ogni tanto parlane, sempre con grande rispetto, ma che sappia che tu meriti la sua fiducia. Quello che è successo oggi è una gran fortuna per te.»

Mia madre mi ha dato nome Fausto, convinta che mi avrebbe portato fortuna. Come giovane schiavo non me la passavo tanto male, appartenevo a una famiglia ricca e importante, mai venivo adibito a lavori pesanti, mangiavo tutti i giorni e vestivo bene, mi era stata impartita una buona educazione. Ero nato in casa da una schiava nata in casa, che mi aveva concepito con il padrone. Almeno lei raccontava questo, e tutti nella famiglia, liberi e schiavi, ne sembravano convinti e mi ritenevano affidabile e di buon carattere, uno schiavo da cui nessuno si aspettava improvvise alzate di testa. Da parte mia temevo la frusta, avevo sempre fatto del tutto per evitarla, ed ero arrivato a undici anni senza mai assaggiarla. Io ero sicuro di essere fortunato. «Guarda Livio, è diventato ricco, e guarda Lusio, ha il suo peculium e Porcia è intenzionata a emanciparlo» aggiunse mia madre. «Hanno fatto qualunque cosa per i padroni, e guarda dove sono arrivati. Soprattutto hanno saputo fare in modo che i padroni li apprezzassero. Fare le cose in modo da accontentare i padroni non è semplice, ma metterle anche in evidenza è un’arte. Devi diventare indispensabile per Marco.» Io pensavo che effettivamente somigliavo moltissimo a Marco e a Tito Druso, ed ero convinto che un giorno questa somiglianza, a loro molto gradita, mi avrebbe dato un posto di tutto rispetto nella famiglia come schiavo di fiducia di Marco, che alla morte del padre sarebbe diventato il dominus. Di chi Marco Druso avrebbe potuto fidarsi di più? Il rapporto tra un padrone e il suo schiavo di fiducia è un rapporto di reciproca convenienza e soddisfazione, in cui ognuno dei due dà qualcosa all’altro e si prende cura dell’altro nel modo che gli compete. Da parte dello schiavo è dedizione assoluta e completa sottomissione. Lo schiavo si occupa di risolvere i problemi materiali del padrone, quali che siano. In genere, se i due sono ragazzi, il primo passo è diventare il suo amante. Ma lo schiavo è quello che il padrone vuole: amante, intendente, amministratore, banchiere, ruffiano, spia, sicario... fa in modo che il resto del mondo non giunga a infastidirlo. Il padrone da parte sua considera lo schiavo un bene prezioso di cui avere cura. Forse un giorno deciderà di affrancarlo, e a quel punto il rapporto si evolverà. Lo schiavo diventerà un liberto e un cittadino, e il padrone il suo patrono, che continuerà a proteggerlo, difendendolo anche in tribunale. Il liberto lo sosterrà, dandogli una parte dei suoi guadagni, votando per lui, procacciandogli voti e creando una discendenza legata a lui. Forse sarà ancora il suo amante, se lui vorrà. Questa era la migliore prospettiva riguardo il mio futuro. Per me piccolo schiavo undicenne era un sogno, ma avrei potuto realizzarlo, dovevo solo rendermi indispensabile per Marco, e in quanto a questo ero già sulla buona strada. Dormivo nella sua camera, a volte lui mi chiedeva di giocare insieme o di aiutarlo a fare i compiti, e, cosa molto importante, non c’erano altri schiavi della mia età in casa, che avrebbero potuto contrastarmi. Avevo solo undici anni, ma già da tempo mi preoccupavo del mio avvenire, perché ci vuole tempo per rendersi indispensabili e mia madre me lo ricordava ogni giorno da quando ero in grado di capire.

Marco fu spedito a letto e io di nuovo mi sdraiai sulla stuoia ai suoi piedi, ma non aveva sonno. Si agitava, e io lo ascoltavo girarsi e rigirarsi, mentre tentavo di cogliere anche i rumori nell’atrio. «Hai avuto paura?» mi chiese all’improvviso. «Sì» risposi. «Tanto.» Se gli avessi detto di no, si sarebbe adombrato, lui che di paura ne aveva avuta molta, come tutti del resto. Forse chi ne aveva avuta di meno ero io, preoccupato come ero di non scontentare il padrone. «Credevo che saresti scappato a gambe levate.» E come avrei potuto? Non sapeva quanto Tito Druso mi tenesse saldamente e quanto mi sentissi impotente a fare qualunque cosa che non fosse accontentarlo, e quanto avessi più paura del biasimo dei padroni, che dei pugnali dei sicari. «Ma no, ho fatto il mio dovere» dissi. «Il dovere dello schiavo è fare quello che vuole il padrone. Tito Druso è un buon padrone, mi tratta bene e io mi getterei nel fuoco per lui.» Marco sembrò soddisfatto. Finalmente poco dopo lo sentii russare e anch’io mi addormentai spossato. Sapevo che quella notte segnava una tappa importante nella mia vita, ma non avrei mai potuto immaginare quanto. Il tribuno Druso morì durante la notte.

 

CAPITOLO II

In ogni familia c’è sempre almeno uno schiavo che parla per denaro, o anche solo per darsi importanza al mercato. Il mattino dopo il sole non era ancora alto e già tutta Roma sapeva che Tito Livio Druso aveva affrontato la plebaglia pagata dagli avversari, spacciando per suo figlio un piccolo schiavo. Tutta Roma parlò di me, divenni famoso mio malgrado. Marco non la prese tanto bene, gli sembrava che il piccolo schiavo lo avesse fatto passare per codardo. Cominciò a dimostrarmelo con una serie di sgarberie, e io non sapevo come metterci rimedio. Mi aiutò il funerale del tribuno Druso,che creò un grave problema organizzativo. Gaio Lelio assicurò al padrone una grossa scorta oltre a quella abituale, anche se nessuno dei due riteneva probabile che qualcuno avrebbe mandato dei sicari al funerale. Certo è che furono momenti di paura per il padrone e anche per Marco, lo capivo dalle loro facce tirate, io che li conoscevo tanto bene. Non doveva essere una cosa di tutto riposo passare in mezzo a quel grande pubblico, in maggioranza ostile, assiepato ai bordi della strada, e poi sostare sul palco, a fianco del figlio adottivo del tribuno, ben sapendo che Tito era considerato da molti il suo erede politico, pensando che dovunque poteva annidarsi il pericolo, e tentando di non mostrare l’ansia. Finito il trambusto dei funerali, Marco non riusciva a liberarsi della grande paura provata. La notte aveva gli incubi. Ma stare in pubblico accanto al padre gli fece riacquistare il prestigio di fronte ai suoi amici nobili; gli fece anche comprendere che quella notte famosa le cose avrebbero potuto mettersi male e io in qualche modo gli ero stato utile, avevo rischiato la vita al suo posto. Per fortuna intervenne a salvarmi anche la spiegazione che il padrone, a un certo punto, ritenne giusto dargli. Entrò nella stanza da letto una sera. Io schizzai subito in piedi e avvolsi la stuoia in un baleno, rintanandomi in un angolo. Lui si sedette sul bordo del letto di Marco.
«Tu sei il mio unico erede maschio» gli disse, accarezzandogli i capelli.
«In te è riposta ogni speranza della famiglia. La tua vita non deve essere messa a rischio inutilmente.»
Marco smise di farmi degli sgarbi, ma non dimenticò mai completamente, e ogni volta che non si sentiva molto sicuro di sé, o in qualche modo si scopriva inadeguato al suo compito futuro, mi puniva.
Mia madre se ne era accorta, era molto preoccupata e mi diceva di fare qualcosa, ma io non sapevo cosa, e mi prendeva un senso di soffocamento, di panico, al vedere che la mia vita dipendeva completamente dai cambiamenti di umore di Marco, più o meno motivati, di fronte ai quali ero del tutto impotente. Fu per questo che cominciai a perdere l’appetito, a dimagrire e ad avere frequenti nausee. Le nausee mi avrebbero creato dei problemi di lì a poco: avrei avuto la dimostrazione che uno schiavo deve essere sempre attento e accorto, non può essere distolto dai suoi doveri da un mal di stomaco.

L’assassino del tribuno non fu mai identificato. Non c’era una grande voglia di scoprirlo da parte dei Romani. Gli Italici vedevano in Druso il campione dei loro interessi e interpretarono la sua morte come la risposta romana alla loro giusta richiesta della cittadinanza. Per questo scoppiò la guerra detta Marsica, che nei due anni seguenti avrebbe insanguinato e impoverito tutta la Penisola. Il defunto Druso fu accusato di aver provocato la guerra che aveva con tutte le forze tentato di evitare. Il tribuno della plebe Vario Ibrida, che molti indicavano come mandante del suo assassinio, propose una legge per cui dovevano essere deferiti alle giurie di cavalieri per alto tradimento tutti coloro che avessero sostenuto gli Italici nella richiesta della cittadinanza. I cavalieri imposero la votazione della legge con le spade in pugno. Uomini più importanti avevano appoggiato il tribuno Druso, ma Tito Druso, per l’appartenenza alla stessa stirpe, per il figlio omonimo, e anche per un grosso lascito del ricchissimo tribuno, a molti era sembrato quello da colpire per primo. Gaio Lelio, che aveva forti appoggi tra i cavalieri, gli dimostrò ancora la sua amicizia facendo slittare il processo. I nemici non se ne curarono perché erano certi di avere in pugno Tito Druso, ormai, grazie alla legge di Ibrida. Intanto, mentre Lelio tramava in favore del mio padrone, altri sostenitori del tribuno Druso furono costretti all’esilio. Lelio comparve una sera all’improvviso in casa nostra e lo fecero accomodare nel tablinum, dove il padrone teneva una lezione a Marco sulle glorie passate della famiglia. Io, vicino a loro, approfittavo per ascoltare, mentre mettevo in ordine il materiale scrittorio di Marco; Livio segnava degli importi e faceva i calcoli delle spese di casa sulle sue tavolette. Tito Druso lo abbracciò con calore. Poi Lelio fece un cenno verso di me, come per dire a Livio di farmi uscire perché c’era qualcosa di importante da dire, ma il padrone intervenne. «Fausto può stare» disse, «è ancora poco più di un bambino, ma ha dimostrato di essere molto attaccato alla famiglia, e sono certo che diventerà per Marco quello che Livio è per me.» «Bene» disse Lelio, e in un attimo mi guardò negli occhi e mi valutò fino all’ultimo sesterzio, «in fin dei conti non si tratta di segreti di Stato. Venivo a dirti che, ungendo qua e là gli amici e gli amici degli amici, sono riuscito a far slittare ancora l’udienza. E in questa situazione, in cui le leggi si fanno per fare politica e per vendicarsi e non per fare giustizia, si salvi chi può; perciò se ci difendiamo nessuno può volercene. C’è tanta gente che mi deve molto e io sono contento di riscuotere i miei crediti per agevolare chi condivide le mie idee. Tu mi sei vicino non solo di casa ma anche negli ideali.» Lelio aveva ideali? mi chiesi.
«Col tempo la tua amicizia è sempre più preziosa, e per me è sempre più cara» disse il padrone.
«Ne sono orgoglioso» disse Lelio. «E domani è la volta del processo a Scauro. Dopo di lui faremo passare avanti altri processi di gente meno importante, intanto spero di convincere Ortensio ad assumere la tua difesa. E poi, quando il popolo sarà sazio di mandare in esilio i nobili, quando sarò certo che le giurie ci saranno favorevoli e avrò assoldato una gran massa di gente per acclamarti al processo, faremo discutere il tuo caso. Ma ricordati che non avremo la certezza di vincere, ogni giorno al Foro c’è un colpo di scena e non possiamo controllare tutto. Certo, se tu, per proteggerti, volessi rinnegare le tue idee sulla cittadinanza saremmo sicuri dell’assoluzione. Pagheremmo dei testimoni per dire che tu non hai mai avuto a che fare con la proposta di concedere la cittadinanza agli Italici e che non perché ti chiami Druso hai le stesse idee del tribuno. Il fatto non sussisterebbe più.» «Ma io questo non posso farlo, non rinnegherò mai quello che sono, sarebbe un tradimento.»
«Per quello che ne so io, è stato fatto di molto peggio, l’importante è quello che si racconta. Molti tradimenti vengono mascherati da atti d’eroismo, l’essenziale è sopravvivere, essere vincitori e controllare le voci che girano. Io lo farei al posto tuo, ma è giusto invece che tu la pensi così, e che tu sia orgoglioso del tuo nome, anche se tutto è più difficile. Tu sei un nobile e io sono un affarista, eppure ti comprendo.
Non dobbiamo rinunciare a quello che siamo, ma dobbiamo cercare un accordo in questi tempi tristi per Roma. Lo dico spesso, ma non trovo grande seguito. Comunque, anche stando così le cose, se Ortensio si assumerà la difesa, potremo farcela.»
Appena uscito Lelio entrò Porcia e l’ambiente tranquillo si fece subito teso.
«Che voleva ancora?» Era evidente che parlava di Lelio. «Si è offerto di nuovo di aiutarmi» disse il padrone. «Non puoi agire senza quell’arricchito volgare?»
«Madre, è un brutto momento, e mi serve tutto l’aiuto possibile. Vuoi che sia cacciato in esilio e che tutti i miei beni vengano confiscati?»
«Certo che no. Ma non hai altri amici?» Lui non rispose subito, ci dovevano essere state importanti defezioni nella schiera dei suoi amici. Dopo averci pensato un po’ disse: «Per Lelio il denaro non è un fine, ma solo un mezzo per realizzare altre cose e lo spende volentieri per aiutare un amico».
«Quell’uomo si sta insinuando in casa nostra» disse lei. «È ricchissimo, potrebbe agire in prima persona, darsi alla politica in grande, ma lavora sempre sottobanco proteggendo qualcun altro, e questo perché con tutti i suoi soldi è un homo novus che ha paura di fare brutte figure. Non riuscirebbe mai a salire su un palco e a esporsi al giudizio di Roma. E come farebbe a mettere insieme due parole di fila? Adesso si vuole servire di noi. […]

 

Il sangue dei fratelli
Mondadori
Collana: Bestsellers
ISBN: 9788804617662
420 pagine
Desktop   tablet   android   ebook   windowa   ebook   pdf

» scarica il formato .pdf