I TARQUINI

La dinastia segreta

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Parte prima
RE TARQUINIO

I tarquini - Emma Pomilio, libri MondadoriSi avvertì tra i Greci, e filtrò anche in Italia l’idea che solo uomini forti, cosmopoliti e dal temperamento esagerato riuscissero a scuotere oligarchie statiche, sempre più chiuse in sé.
Prendevano il potere d’un colpo, avvalendosi di pochi armati, e il popolo, affascinato, seguiva.
ANDREA CARANDINI, Re Tarquinio e il divino bastardo

 

CAPITOLO I

Fervevano i preparativi per la gara di fine estate in una spiaggia a meridione di Tarquinia.
«Non puoi mostrare chi sei, amico mio. Devi lasciare da parte l’orgoglio come faccio io.»
Si erano allontanati dal trambusto, avvicinandosi alla battigia, e gli parlava con voce sommessa, accarezzando il pelo lucido.
«Siamo qui per perdere, amico mio. Questi sono gli accordi. Tu sai quanto è difficile anche per me. Ma abbiamo compiuto il primo passo. Se ci hanno ammessi qui, verrà il giorno in cui ci faranno gareggiare veramente. Dobbiamo attendere quel giorno, ma oggi sarà bene arrivare ultimi.» Sospirò. «Parlo a lui per convincere me, non ci faranno gareggiare mai.»
Rivolse lo sguardo all’orizzonte e vide segni favorevoli. Si sarebbero potuti piazzare bene, fare bella figura.
Un acuto riso femminile sovrastò i flauti e le voci concitate di cavalieri e stallieri. Al limitare della macchia era giunto un carro coperto, seguito da un altro con i servi e i flautisti. I servi allestirono una pedana, cinque ragazze scesero, eccitate e ridenti, accompagnate dalla musica. Tutti le guardavano dalla spiaggia.
L’ultima evitò la pedana e saltò a terra, tenendo con le mani le falde del copricapo. Tanaquil, dei principi Silqetenas. I boccoli le rimbalzarono scomposti sulle spalle e si impolverarono le scarpette ricamate d’oro. Rideva, contenta della prodezza, il suo riso era un tintinnio di vetri sottili.
Guardandola lui si sentì cosciente come non mai della propria condizione di inferiorità. Bella come Afrodite, pensò, ma di sicuro più elegante, e noncurante dell’acconciatura preziosa, che a qualcuno è costata lacrime e sangue. Ma che ne può sapere di lacrime e sangue una come lei…
Non aveva mai avuto l’occasione di parlarle. Era un’indovina, una delle donne più stimate, apparteneva a una famiglia potente; il padre, il principe Silqetenas, concludeva affari con lui solo al porto, non lo aveva mai ricevuto nel palazzo a Tarquinia.
Stavolta la principessa lo colpì profondamente, tanto sicura dei suoi privilegi e della stima di cui era oggetto, da permettersi di fare la spiritosa in pubblico. Si diceva che il padre l’adorasse per l’animo intrepido e non prendesse iniziative senza il suo parere.
In quel momento lei diventò il simbolo di tutto quello che gli negavano. Era lì solo per amore dello spettacolo, come tutta la sua razza superba, o per uno dei cavalieri?
Nemmeno si sarebbe accorta di lui, che era stato inserito all’ultimo momento, e solo perché uno dei concorrenti si era fratturato tre dita. Si trattava comunque di un favore particolare che sarebbe costato molto, e non solo in oro: per l’onore di gareggiare coi principi aveva dovuto promettere di non farsi notare, né per bravura né per equipaggiamento, umiliando se stesso e il suo cavallo. E d’altronde la gara non aveva niente di ufficiale, era organizzata dagli stessi concorrenti, che dettavano le regole e avevano deciso di ammetterlo, bontà loro, solo grazie alla sua elargizione speciale.

Tra le signore e i cavalieri, impegnati nei preparativi, ci fu uno scambio di convenevoli da lontano, ma nessuna salutò lui, o mostrò di averlo notato. Gli giunse solo una folata di profumo prezioso: lo conosceva bene poiché lo importava da Cipro. Valeva il doppio del suo peso in oro, e le principesse se ne erano cosparse senza risparmio.
I servi al seguito tagliarono alcuni cespugli e aprirono gli sgabelli all’ombra dei pini, in un punto rialzato della spiaggia da cui si poteva scorgere quasi tutto il percorso della gara, ma al sicuro dai possibili incidenti. Loro presero posto con un gradevole cicaleccio. Erano un bello spettacolo. Le vesti colorate creavano un forte contrasto col verde cupo della boscaglia alle spalle.
Soprattutto su di lei, che aveva ripreso l’atteggiamento altero consono alla sua posizione, continuava a farsi domande e a chiedersi se fosse interessata a uno in particolare dei suoi avversari. Chiunque fosse lo odiava. Infine ebbe la risposta, le amiche cominciarono a parlottare e a farle cenni quando giunse il principe Murinas su un carro da guerra; legato alle sponde lo seguiva il cavallo con cui avrebbe gareggiato. Era l’unico giunto sul carro, e ne aveva il diritto: per quanto fosse molto giovane, già aveva guidato una fortunata spedizione contro una piccola città che voleva rendersi autonoma. Poteva ben essere ritenuto un condottiero.
Il principe si alzava prima dell’alba e si esercitava tutto il giorno con le armi; veloce e scattante, non mostrava un filo di grasso addosso, solo muscoli.
L’auriga al suo fianco era il favorito, ancora imberbe, dai folti riccioli biondi. Glielo aveva ceduto lui concludendo un buon affare. Aveva tenuto il ragazzino presso di sé a lungo per insegnargli quanto necessario per essere ammesso a un banchetto. Il moccioso lurido, che aveva adocchiato in uno dei suoi viaggi, era diventato un adolescente splendido, di maniere squisite e capace di recitare qualche verso.
Presto giunsero molti spettatori. I servi tagliarono altri cespugli e piazzarono altri sedili: le principesse furono circondate da gente benvestita, ma la loro eleganza sfolgorante si notava ancora di più. Arrivarono altri suonatori e al chiasso della folla si accompagnarono i flauti.
Chiamò il suo intendente greco, Filaco, che stava un po’ in disparte. Di certo rifaceva a mente dei conti, e si doveva riconoscere che sbagliava molto di rado, aveva sempre nella testa sacchi di merci, anfore e giare, tegole e colmi.
«Qualche novità sulla principessa Tanaquil?»
«Chiedo subito.» Filaco si intrufolò tra gli stallieri e i servitori, ma tornò presto.
«Oggi lei darà inizio alla gara ed è anche il giudice supremo. Gli altri giudici sono le sue amiche.»
«Che altro?»
«Pare che sposerà il principe Murinas. Questa è la novità sulla bocca di tutti.»
«Ah sì? Buono a sapersi. Si diceva anni fa, ma dopo le famiglie hanno litigato. Dunque le famiglie si sono rappacificate.»
«Così pare. È cosa recentissima. Festeggeranno domani con un banchetto. Si stanno alleando di nuovo per contrastare l’ascesa degli Spurinas.»
«Non sarà facile contrastarli…»
«Lo penso anch’io. Intanto chi ci guadagna è il principe Murinas che non sta nei panni dalla gioia, non gli pare vero di accaparrarsi una moglie tanto importante, anche se non gli sarà facile farsi ubbidire da una donna così. Comunque avere l’indovina in casa è una grande comodità. Ma lei non ha dato ancora il suo consenso, e non lo darà finché non avrà presagi favorevoli.»
Ah… Oggi il principe Murinas non può permettersi di fare una figura mediocre, pensò lui, dunque c’è un motivo se sono qui, non solo per finanziare la gara. Il principe è già d’accordo con un paio dei suoi amici più stretti, il suo cavallo è ottimo, io non darò problemi… Se non è sicura la vittoria, lo è almeno un buon piazzamento.
Fece dei rapidi calcoli. Quando voleva contava più velocemente di Filaco. Quella sconfitta avrebbe portato affari vantaggiosi, ma lui era ricchissimo, possedeva un grande tesoro. Stanze stipate di vasi d’oro e d’argento, gioielli, armi, avori, stoffe, unguenti e profumi, magazzini pieni in ogni porto, navi cariche di merci sul mare, stalle con i più bei cavalli da tutto il mondo, schiavi bellissimi. Ma stavolta voleva di più, mettersi in gioco, mostrare il suo valore e la prestanza fisica. Voleva che lei lo notasse.
«Cambiamo il cavallo» disse.
«Come, signore? Perché cambiare adesso? È tardi. Che diranno?»
«Niente. Nessuno fa caso a noi, non siamo importanti.»
Il nuovo cavallo era sbarcato da poco. Ne era rimasto affascinato in un emporio greco sulla costa dei Liguri e l’aveva ottenuto in cambio di una stoffa pregiata e molte barre d’argento. Era più alto di quelli etruschi e anche più veloce grazie alle sue proporzioni: aveva pensato che i principi di Tarquinia avrebbero fatto a gara per accaparrarselo e sarebbe iniziata una lucrosa importazione.
Ma ormai avrebbe tenuto il cavallo per sé. Era adatto a lui, poiché sopportava agevolmente il suo peso; quelli etruschi, più piccoli, con la sua corporatura non erano mai riusciti a offrire grosse prestazioni.
«Si chiama Tramonto» aveva detto il venditore. «Dalle foreste del Settentrione, oltre i grandi fiumi, viene la sua stirpe.»
«Perché te ne separi se ne racconti meraviglie?» gli aveva chiesto.
«Ho bisogno d’oro per fare un buon matrimonio.» E poi l’uomo lo aveva guardato con un’espressione furbesca. «Comunque io possiedo ancora il padre e la madre del campione…»
«Non è detto che gli accoppiamenti vadano sempre bene.»
«Ma io lo spero.»
«E io te lo auguro.»
«Grazie. Sento che il tuo augurio è sincero, e poiché il tuo argento è al sicuro nel mio forziere, voglio essere onesto con te. Ho già una moglie, che ha un buon carattere e mi ha portato una dote apprezzabile. Tramonto non mi è amico, per questo me ne separo. Altrimenti chi potrebbe separarsene? Ma è posseduto da uno spirito malvagio. Mi ha ucciso uno stalliere. Ti dico questo per farti evitare incidenti, perché mi sei simpatico, e poi oggi sono stato al tempio e ho fatto voto di non mentire.»
«Hai già mentito.»
«Solo un po’.»
«È un imbroglio. Chiamo le guardie.»
«Sarà la tua parola contro la mia. Io sono un cittadino benvoluto. E poi tutti hanno visto che l’hai montato, prima di trattare. Forse non ti intendi di cavalli?» In quel momento due servi armati si erano posti ai fianchi del mercante.
Lui conduceva tanti uomini al suo seguito, erano confusi tra la folla e già si scambiavano segni d’intesa portando la mano al pugnale; con un’azione rapida e senza grande clamore sarebbe riuscito a riprendersi l’argento nel forziere, ma, se si fosse generata una rissa, a chi avrebbero creduto i giudici?
Era stato costretto a cedere, allontanandosi apparentemente tranquillo. La storia della sua vita: ricchissimo abitante delle zone franche dei porti, delle navi sue e degli amici, delle case entro le mura che gli concedevano in affitto. Uomo senza terra. Principe dei mercati, cittadino di nessuna città. Ogni tanto qualcuno riusciva ad approfittarne. Quando un aristocratico, contento degli affari conclusi, lo invitava alla sua mensa, era una grande concessione.
A Tarquinia gli avevano affibbiato il soprannome di Lucumone, appellativo del re fino a qualche decennio prima, in disuso da quando avevano preso il potere i principi. Questo con l’intento di ricordagli che, per quanto fosse ricco più di tutti loro messi insieme, mai avrebbe avuto cariche.
Il cavallo era arrivato all’approdo di Tarquinia qualche giorno dopo di lui, con una nave oneraria, e quella stessa mattina era andato a vederlo sbarcare. Impolverato, con la coda e la criniera legate, per quanto fosse grande ed elegante non aveva affascinato gli astanti come era accaduto con lui al primo incontro.
Si era mostrato scontroso, molto occupato a riprendere il contatto con la terraferma; con gli zoccoli potenti aveva fatto rimbombare i legni dell’approdo. Di certo era provato dal viaggio, ma lui aveva voluto montarlo, cavalcando fino alla spiaggia senza problemi.
Non sapeva se poteva fidarsene, in quel momento difficile. Eppure il cavallo teneva sempre la testa bassa ogni volta che ne aveva l’occasione, e questa era una buona cosa. Era vendicativo, non pazzo, probabilmente cattivi ricordi degli uomini dettavano i suoi comportamenti. Comunque a lui piaceva rischiare. Mai aveva ottenuto qualcosa senza rischi.
Proprio mentre faceva queste considerazioni, un occhio torvo lo scrutò. Gli piacque.
Cercò nella bisaccia il più bel morso lavorato, ne scelse uno con redini di pelle rossa. Si cambiò anche lui, indossò un’aderente tunica rossa, ma non le protezioni. Senza casco i suoi boccoli neri e la barba, unti di profumi, brillavano.
«Fra poco si comincia» disse Filaco, che gli gironzolava intorno per mostrare il suo disaccordo.
«Bene, sono pronto.»
«Indossa il casco.»
«Oggi no, solo il frustino.»
«Ah… E che diranno del nuovo cavallo?»
«Ancora… Stai diventando insistente. Non ci guarda nessuno.»
«Che gli dèi ci proteggano. Signore, che vuoi fare? Fino a questo momento gli dèi ci sono propizi. Gli affari vanno bene, tutto va bene…»
«Questo lo vuoi credere tu. Non va bene niente. Se qualcuno parla gli devi dire solo che il cavallo scelto in precedenza era nervoso; pensiamo che soffra di dolori a una zampa. Non abbiamo ritenuto opportuno disturbare i principi col raccontare una tale inezia. Ma adesso fallo portare via. È stato sempre un buon compagno, non voglio che si risenta del tradimento.»
«Ma signore, pensa alle conseguenze. I compatrioti sono tranquilli sotto la tua guida…»
«Basta, non c’è tempo. Esegui i miei ordini o ti farò frustare. Al suono dei flauti, visto che qui si usa così.»
Filaco aprì la bocca per ricordagli che era un uomo libero e non poteva essere frustato, poi guardò impaurito il volto minaccioso e sparì.
Lui prese una carota e la tenne in una mano abbandonata su un fianco. Adesso o mai più, pensò. Forse tra poco sarò pentito di quello che sto facendo, ma sono stufo di aspettare, qualcosa mi dice che è giunto il momento di cambiare rotta, e lei mi piace, mi eccita, mi dà il coraggio di osare.
Con la destra sciolse i lacci della coda e della criniera, che ricaddero folte e ondulate, la coda sfiorava la sabbia. Delicatamente pettinò i crini con le dita, sciogliendo qualche nodo, e l’occhio lo guardò con interesse. Ci fu un movimento quasi impercettibile, sentì la carota scivolar via e un odore diverso del cavallo, intenso e acre, lo raggiunse.
Montò quando gli stallieri erano sul punto di allontanarsi dalla pista. La folta criniera e la coda stavano riprendendo la loro forma seducente, le redini rosse creavano un bel contrasto e richiamavano la sua veste… Era il meno elegante dei concorrenti, tutti coperti di gioielli, ma la semplicità metteva in luce le doti naturali: la sua corporatura atletica e le splendide forme del grande cavallo, il più grande di tutti. Si accorse che il pubblico cominciava a osservare l’uomo e l’animale.
Si avvicinò ai concorrenti. Sette cavalieri erano pronti sulla riga della partenza davanti alle principesse: tutti molto concentrati, lo salutarono di sfuggita senza far caso al cambio.
La gara consisteva in sei giri intorno alle mete, non ben visibili dall’area in cui stazionava il pubblico, e controllate da uomini dei principi. Lui che, per gli accordi intercorsi, avrebbe dovuto tenere una condotta defilata, non aveva bisogno di piazzare uomini suoi a prendere visione delle irregolarità, e neppure glielo avrebbero permesso, poiché era là solo per la condiscendenza dei principi. Dunque non doveva farsi invischiare in incidenti lontano dal pubblico, poiché avrebbe avuto contro tutti i testimoni.
Doveva vincere nel modo più pulito, solo grazie alla sua abilità e alla velocità del cavallo.
Avevano estratto a sorte i posti, il suo, il più esterno, era vicino al pretendente della bella Tanaquil. Le rivolse una breve occhiata: lei osservava l’uomo che le era destinato e sembrava perplessa. Forse davvero si chiedeva se avrebbe avuto segni positivi dal cielo.
Per quello che si conosceva di lei, era certo che se non li avesse avuti si sarebbe opposta al matrimonio.
Tanaquil si alzò e si guardò intorno. Quando l’attenzione di tutti fu concentrata sulla sua persona e i flauti smisero per un istante la loro nenia, diede inizio alla gara facendo cadere un panno bianco.
I flauti ricominciarono con un acuto penetrante. I concorrenti si lanciarono raggruppandosi pericolosamente: poco si capiva per la sabbia che sollevavano. Lui se ne tenne lontano frenando il cavallo, non riteneva improbabile che qualcuno approfittasse della confusione per colpirlo, poiché sapeva che almeno un paio dei principi erano contrari alla sua presenza.
Il principe Murinas passò in testa e man mano i cavalli cominciarono a distanziarsi. Anche lui spronò superandoli uno dopo l’altro, raccogliendo sguardi astiosi e maledizioni.
Tramonto si dimostrò subito amante della competizione e veloce come il vento, il pubblico lo incitava, entusiasta. Al quinto giro gli resisteva solo il cavallino straordinario del principe Murinas, robusto e potente, aiutato dalla corporatura asciutta del cavaliere.
Ogni tanto il principe gli rivolgeva un’occhiata per intimargli di rispettare gli accordi. Ma infine doveva aver capito che i patti erano saltati e lo straniero lo avrebbe superato, perché il suo cavallo aveva la falcata più lunga, e al suo cavallino caparbio sarebbe scoppiato il cuore. Eppure non desistette, mentre giravano intorno alla meta ed erano più vicini lo colpì con il frustino. Lui si scansò, ma il principe continuava ad aggredirlo spingendolo in un punto pericoloso, dove un ruscello scorreva al mare nel suo letto di sassi con alte sponde di sabbia friabile.
Stavano uscendo di pista, e questo aspettavano gli osservatori per accusarlo di irregolarità. Era tentato di usare anche lui il frustino, ma guai se lo avesse fatto, si dominò e cercò di sfuggire ai colpi, ma il principe si accaniva, così tentò il tutto per tutto e spronò sulle sponde del ruscello che crollavano dietro di lui al suo passaggio.
Superò il principe, balzando in testa.
Compì il sesto giro da solo, incitando il cavallo, per far vedere quanto poteva essere veloce. Infine si fermò davanti alle principesse sollevando un’alta nuvola di sabbia.
Gli altri concorrenti avevano rinunciato alla gara e giunsero alla spicciolata, subito circondati dagli stallieri. Sulla pista si riversarono anche molti spettatori.
Lui a una rapida sbirciata si accorse che Tanaquil lo guardava sorpresa, molto interessata, meglio dire che lo squadrava da capo a piedi. Sembrava vederlo per la prima volta, forse perché lo guardava per la prima volta.
Adesso gli spettava il premio. L’avrebbe vista da vicino, faccia a faccia. Lui che aveva affrontato tanti pericoli e trattato con principi e re si sentiva emozionato.
Gli si fecero intorno gli stallieri e smontò. Corse verso di lui anche il giovanissimo auriga del principe Murinas, ragazzo imprudente, urlando il suo entusiasmo per la vittoria di Lucumone, l’uomo a cui doveva tutto, anche la sua posizione presso il principe.
Ma Lucumone era attorniato dai suoi, così il ragazzo, per raggiungerlo, passò dietro al cavallo, e in segno d’ammirazione gli diede una pacca su una natica. La reazione di Tramonto fu immediata, scalciò e prese il ragazzo sul petto e in pieno volto. Si sentì il rumore delle ossa fracassate. Gli stallieri lo trascinarono via dalla bestia imbizzarrita.
Il principe Murinas non si curò del suo auriga, che stava morendo per festeggiare il vincitore. Gli si avvicinò Lucumone a sollevargli la testa, e si avvide che la scena era seguitissima, anche i flauti suonavano in tonalità smorzata.
Tanaquil lo fissava. Filaco prese l’iniziativa e poi anche gli altri al suo seguito, amici e stallieri, lo circondarono per nasconderlo in quel momento agli sguardi curiosi.
«Sciocco ragazzo, i miei insegnamenti ti sono serviti a poco…»
Il ragazzo lo guardò con gli occhi offuscati dal sangue e dalla morte imminente, tentando di metterlo a fuoco meglio.
«Perché mi hai venduto a lui?» mormorò. «Io ti amavo.»
Nel silenzio quelle parole furono udite dagli spettatori più vicini, e presto in un sussurro arrivarono lontano.
Morì tra le braccia di Lucumone col bel volto ridotto a una poltiglia sanguinolenta.
Lui sapeva di apparire a tutti in quel momento quello che era in realtà: un uomo astuto e sprezzante del pericolo. Pensavano che avesse gettato la maschera.
L’aveva fatto per Tanaquil, perché lei aveva risvegliato il suo orgoglio sopito, tenuto a bada dalla nascita, alimentato in segreto dalle umiliazioni, ma lei non lo avrebbe mai saputo.
Le si avvicinò per ricevere il premio senza nettarsi le mani dal sangue del ragazzo, per rimarcare che il principe Murinas non aveva avuto la pietà di avvicinarsi al suo auriga morente.
Mentre tutti osservavano Tanaquil e lo straniero, e dai flauti proveniva solo un leggero sottofondo come un sibilo, la guardò negli occhi un attimo, non osò di più, ma quell’attimo fu sufficiente per comprendere che il pericolo le piaceva. Era riuscito a incuriosirla.
«Mi congratulo con te» gli disse, porgendogli il trofeo. Prese il premio dalle sue mani, senza indugiare al contatto.
Era un vaso di poco valore di un artigiano locale, ma portava la scritta ambita APPARTENGO AL VINCITORE DELLA GARA ANNUALE DI FINE ESTATE SULLA SPIAGGIA.

Si udì un garrire lontano e lei alzò gli occhi al cielo per qualche istante, poi lo guardò di nuovo e molto più interessata.
I principi non si avvicinarono a complimentarsi, lo trattavano da traditore, e questo atteggiamento non piacque alla gente ancora in preda all’esaltazione. Ora il soprannome Lucumone, che i principi usavano per ricordargli di starsene al suo posto e che aveva fatto dimenticare alla città il suo amato nome greco Licomede, diventò per il popolo il suo migliore appellativo. Così lo chiamavano da lontano festeggiandolo. «Lucumone» urlavano. E non deridevano lui, deridevano i principi.
Non aveva previsto che al danno per gli avversari si aggiungesse la beffa. Per la prima volta pensò a sé come Lucumone e si identificò in quel nome. Ma l’abitudine di tanti anni gli ricordò di stare in guardia: la situazione gli stava sfuggendo di mano. Si ritirò, protetto dai suoi. Era il caso di eclissarsi, circondarsi di uomini fedeli e preparare la fuga.
Tornò a casa. Chiamarla casa poi… non era adatta a uno ricco come lui, e soprattutto non era sua. L’aveva presa in affitto da un giovane amante del gioco, ma i cittadini non gli avrebbero permesso di comprarla.
Piazzò molti uomini di guardia, li fece richiamare anche dal porto in piccoli gruppetti per non dare nell’occhio. Lui, che aveva il permesso di soggiornare lì grazie alla benevolenza dei cittadini, non doveva avere una guardia troppo nutrita.
Appoggiò sul tavolo il premio che, oltre alla scritta, portava un ricordo indelebile di morte. Le impronte delle sue mani insanguinate sembravano una pittura sul vaso senza smalto che le aveva assorbite.
Fece convocare un ragazzo che stava addestrando per venderlo a Cuma, un bellissimo adolescente bruno dagli occhi chiari, quasi grigi. Quando vide il suo sguardo freddo, che lo esaminava, il ragazzo gli si gettò ai piedi.
«Sai cosa è successo?» gli chiese lui.
«Sì.»
«Bene, allora sai come agire.»
In un cofano pregiato pose una coppia di bracciali preziosi.
«Indossa una tunica azzurra che metta in risalto i tuoi occhi e tieniti pronto. Filaco ti accompagnerà dal principe Murinas. Consegnagli questo cofano, metti in atto le arti che ti ho insegnato, seducilo e fagli pensare che col cambio ci ha guadagnato molto. Digli che è un amante migliore di me.»
«Ma tu non sei il mio amante, signore.»
«Devi mentire se vuoi salvarti.»
Il ragazzo si chinò e gli abbracciò le ginocchia. «Ti prego, signore, tienimi qui. Quell’uomo è un violento. Chissà che mi farà per dimostrare il suo disprezzo per te, mi maltratterà in tutti i modi.»
«Dipende da te, devi essere tanto abile da evitarlo.» Sentiva le lacrime del ragazzo bagnargli le gambe.
«Dicevi che mi apprezzavi molto, e non avevi più intenzione di cedermi. Dicevi che avresti fatto di me un costruttore agli ordini di Filaco.»
«Sì, lo dicevo. E così doveva andare, ma sei stato sfortunato. Tutti sanno quanto tengo a te, proprio per questo ora devo sacrificarti. Ci sono cose più importanti di te, della tua sorte, e del mio affetto per te. Tante persone, famiglie intere, mi si affidano.» Gli porse una mano da baciare. «Adesso vai.»
Era addolorato per lui e per tutti gli altri, la cui vita avrebbe subìto bruschi cambiamenti a causa del suo colpo di testa, della sua improvvisa decisione di mostrarsi per quello che era.
Bevve una coppa di vino, sentì i muscoli rilassarsi pian piano. «Mi spoglio da solo» disse al servo, «preparami una veste comoda e avverti mia madre che voglio parlarle.»
Dietro un angolo fece capolino l’amante egizia, le incorniciava il volto color miele dorato una parrucca sontuosa, da cui pendeva sulla fronte l’ultimo gioiello che le aveva regalato. Si era preparata degnamente e sperava di essere scelta per vezzeggiare il campione.
«Stanotte dormo solo e non voglio incontrare nessuno.» Gli occhi bistrati espressero una cocente delusione e scomparvero.
Aprì i catenacci della stanza in cui conservava parte delle sue ricchezze, poiché il grosso si trovava all’approdo, pronto a essere trasportato in qualunque momento. Esaminò vasi, stoffe, unguenti, farmaci e profumi, poi aprì l’arca con i gioielli più preziosi. Collane, fibbie, spille, bracciali, anelli, orecchini e diademi provenienti da tutto il mondo, da tutte le rotte commerciali marittime e terrestri. E una novità in elettro dalla Lidia, con peso garantito dallo stato, che, secondo gli inventori, avrebbe avuto un grande successo negli scambi.
Larthia, la madre, arrivò subito. Lo osservava, di certo le era stato riferito della gara, lo seguiva come un’ombra in tutto il suo andirivieni e non gli chiedeva nulla.
Lui scelse alcuni splendidi gioielli e li adagiò su un tavolo.
«Madre, quale ti piacerebbe se tu fossi l’aristocratica Tanaquil?»
«Nessuno.» Rispose precipitosa, e lui si accorse di un lampo di paura nei suoi occhi.
«Vuoi scoraggiarmi?»
«Lei è una vergine, figliolo…»
«E tu ne sei certa?»
«Sì.»
«Cosa cambia?»
«Non cederà per un gioiello. Ne sarebbe lusingata, certamente, ma non cederà. Lei ci tiene molto a essere onorata e stimata.»
Rimasero in silenzio. Lui pensava al ragazzo che gli aveva confessato il suo amore in punto di morte, il bel volto massacrato rischiava di offuscare la sua obiettività di giudizio in quel momento tanto difficile. Doveva toglierselo dalla testa, Lucumone non poteva permettersi sbagli.
«Regalale un simbolo» disse infine Larthia, «qualcosa che le faccia comprendere quanto tu la tieni in considerazione non solo per la sua posizione, ma soprattutto per le sue qualità: forse andrebbe bene uno degli ultimi poemi che hai portato dalla Grecia. Ma non darle mai, mai, l’impressione di volerla comprare, lei nutre diffidenza verso di noi come tutti i suoi.»
«Ma i suoi accettano i regali…»
«Lei si sente parte della sua città e della sua famiglia, ma si ritiene comunque diversa e un gradino più su perché è un’indovina.»
«Eppure chi riceve un regalo da un uomo molto ricco si aspetta qualcosa di valore.»
«E tu cosa ti aspetti veramente da lei?»
Tutto si aspettava da lei. «Prima la volevo nel mio letto, come altre principesse che mi si sono concesse. Adesso voglio che mi sposi.»
La madre non trattenne una risata amara.
«Tu sei un’aristocratica e hai sposato mio padre…»
«Ma noi avevamo perduto le terre, eravamo rovinati… Allora dissi a tuo padre che possedevo ancora tutti i miei gioielli, per non apparire troppo bisognosa, ma non avevo più nemmeno quelli. Abitare al porto, in una casa sicura, era meglio che stare nel mio palazzo a Tarquinia senza legna per il focolare, ben sapendo che stavano per prendersi anche il palazzo.» La sua famiglia aveva osato e perduto scontrandosi con la potente famiglia del principe Murinas.
«L’hai sposato solo per questo?»
«Sì, ma tuo padre non poteva immaginarlo poiché l’ho ingannato, e così ha usato argomenti molto convincenti.»
Affrontavano questo discorso per la prima volta. Lui sapeva molti particolari dei momenti difficili affrontati da suo padre dopo la fuga da Corinto, ma non cosa avesse escogitato lei, che non amava parlare della disfatta della sua famiglia. Eppure la vide sorridere al dolce ricordo del marito.
«Ah… Forse a me mancano i suoi argomenti?»
«Certo che no, ma non vorrei che questa impresa ti deludesse. C’è mia nipote Sethra, è bella e tesse stoffe sottilissime.»
«È povera, madre.»
«È abbastanza povera da farti perdonare quello che hai fatto oggi. È imparentata con tutti loro…»
«Tua nipote non conta nulla, falla sposare a mio fratello, uomo senza ambizioni. Io voglio una moglie che abbia il potere di farmi accogliere tra i cittadini, non solo di farmi perdonare.»
«È impossibile figlio. Non è mai accaduto, ormai le leggi della città sono stabilite. Non saranno mutate per te.»
«Voglio la terra, e voglio il diritto di combattere al fianco di chi possiede la terra. Mai più devono accettarmi in una gara con l’accordo che io perda.»
«Questo è impossibile, ma col tempo i principi dimenticheranno quello che è successo oggi. Ci sono guerre in vista e forniture di armi e viveri. A chi affiderebbero la costruzione delle fortificazioni, se non a te?»
«Sarò sempre un costruttore e un mercante, non un milite. Delle vittorie si glorierà chi potrà usare le armi che io gli fornirò.»
«Rinuncia a lei o sarà peggio. Ti farai molti nemici.»
«Ho già molti nemici, l’umiliazione di oggi i principi non la scorderanno nemmeno tra cent’anni, nemmeno se sposassi una serva per far credere che non ho ambizioni.»
«Saremo costretti ad andarcene. Dove andremo?» Finalmente Larthia aveva detto quello che la angustiava.
«Per gente come noi un posto vale l’altro. Siamo esuli su tutte le sponde del mare. No, non rinuncio, non ricomincio da un’altra parte.»
«Figlio, mi sembri confuso. È solo la terra quello che vuoi?»
Non rispose ed evitò il suo sguardo.
«Ah… lei ha risvegliato il tuo ardore. Allora… regalale una stoffa preziosa da cui si sentirà avvolta come dal tuo abbraccio.»
Non ci pensò sopra a lungo. «Sì, questa è una buona idea. Ho qualcosa di straordinario che viene dall’Oriente.»
Aprì un cofano, la stoffa scivolò fuori come dotata di vita propria, come un’onda leggera. Era di uno straordinario colore verde cangiante e quasi trasparente.
«Che ne dici?»
La madre la sfiorò con le dita. «Non ho parole. E se la profumassimo?»
«Sì, madre, usa il profumo più prezioso. E la farò presentare in una scatola d’avorio, ho già in mente quale.»
«Niente oro dunque.»
«Niente oro.»
«Comprenderà il messaggio. Ti auguro di riuscire, figlio. Lei certo non ti sposerà, ma potrebbe accordarti la sua protezione. E se devi osare tutto per ottenerla, non perdere tempo, agisci in fretta, o fai atto di sottomissione ai principi.»
«L’ho già fatto. Ho mandato un dono al principe Murinas. Spero che basti, non farò altro.» Non aveva voglia di lasciarsi umiliare oltre.
«Se non otterrai presto un potente sostegno dovrai farlo. Sei responsabile di tante persone, figlio mio.»
«Lo so, questo pensiero non mi abbandona mai. Tu, comunque, preparati a una partenza improvvisa.»
«Sono sempre pronta. Siamo tutti pronti, con grande pena.»
La madre mise a scaldare in un fornellino alcuni grani di profumo e vi tese sopra la stoffa.
Prima dell’alba Tanaquil era già stanca di rispondere alle domande della famiglia su Lucumone. Soprattutto perché voleva pensare a lui in pace. Era perplessa, non capiva cosa le stesse succedendo, si sentiva attirata e lo temeva. Intuiva in lui una tenacia che diventava ostinazione e irriducibilità pericolosa, ma non poteva dimenticare i suoi muscoli e la virilità prorompente, e nemmeno gli occhi luminosi che avevano cercato i suoi, tentando di esplorarne le profondità in un solo istante.
«Finora, non era mai sembrato un tipo così» disse la madre.
«Lo ritenevo furbo, ma non avrei mai pensato che fosse così forte e coraggioso» aggiunse il padre. «Ha battuto sette aristocratici, futuri condottieri dei nostri eserciti.»
«Qualcuno sottoporrà la questione all’assemblea» considerò il fratello. «Vedremo come si pronuncerà. Certo troverebbero qualche pretesto accettabile, nulla che ricordi la gara, ma non sarei stupito se lo cacciassero.»
«No, non lo cacceranno» ribatté il padre, «in troppi fanno affari con lui. Io non voterei per farlo cacciare. Certo inviterei i giovani a non farlo partecipare alle loro gare, ma se Tarquinia è la città più progredita si deve a lui e a gente come lui, che ci porta le novità dall’Oriente.»
«Ma sì, che frequenti i suoi simili al porto: gli stranieri devono solo essere utili, possono arricchirsi con noi, ma non fare parte della nostra vita» disse la madre. «Ma passiamo ad argomenti più importanti. Secondo me, dopo quello che è successo, sarà il caso di preparare un banchetto memorabile per il principe Murinas.»
«Vuoi consolarlo?» disse il figlio.
«Voglio confermare l’intenzione di allearci. E intanto vorrei recarmi al mercato a vedere se c’è qualche novità per fare bella figura. Drappi, stoviglie…»
Lei non si alzò per accompagnare la madre.
«Non vieni?»
«No. I presagi non sono favorevoli, non lo sposerò» affermò con un tono che non ammetteva repliche.
Calò il gelo.
«Se continuerai così finirai con lo sposarti con un uomo al di sotto della tua condizione» replicò la madre.
«Perderemo un’alleanza importante» aggiunse il padre. «Pensaci su, cara, intanto il banchetto si terrà. Cercheremo di prendere tempo, senza mostrare i nostri dubbi.»
«Non parteciperò al banchetto. Non potete costringermi, non mi sposerò senza presagi favorevoli.»
«Prima rifletti» disse ancora il padre con un sospiro. «È un’alleanza tra famiglie, sai perfettamente che puoi decidere di riceverlo nel tuo letto solo in date stabilite.»
«Non ho fiducia in lui: gli piacciono troppo i ragazzi, molto più delle donne. Non è equilibrato. Che insegnerebbe ai miei figli? Io voglio avere una famiglia unita e felice come la nostra.»
«Col matrimonio cambierà» concluse la madre.
«Non ne puoi essere certa.»
Tanaquil andò a sedersi nel portico, con la compagnia di un volume di lirici greci. Erano grandi poeti, ma disprezzavano le donne. Si riteneva fortunata per essere nata in un popolo in grado di apprezzarla. Ma il pensiero andava sempre a Lucumone. Lui come la giudicava? Era mezzo greco, figlio di un aristocratico fuggito da Corinto.
Adesso era al porto, nella zona franca, oppure a Tarquinia in una casa che gli affittava un giovane etrusco molto compiacente. O, forse, si era già imbarcato su una delle sue navi veloci con cui navigava tutto il mare? Qualcosa le diceva di no. Chi sa se è in città? si chiedeva. Perché penso sempre a lui? si chiedeva poi. E la risposta si insinuava nella mente: Se fosse a Tarquinia potrei incontrarlo.
La sua serva depositò sul tavolo davanti a lei una scatola d’avorio finemente intagliato, con una gara equestre lungo i fianchi e sul coperchio due leonesse che si fronteggiavano.
«Che splendore… Da chi proviene?»
«L’ha portata Filaco, l’intendente di Lucumone. Tua madre voleva sequestrarla, si domandava come si è permesso Lucumone di mandare un dono a te, ma tuo padre ha detto che sicuramente si tratta di un dono al supremo giudice della gara, e non si deve fare torto al giudice. Così non ha voluto nemmeno che fosse aperta.»
Lei stava sollevando il coperchio, ma la serva si sporgeva a guardare con curiosità per riferire a sua madre. Scosse la scatola e non udì rumori. Chissà che c’era dentro? Fu come una premonizione, meglio che gli altri non vedessero. Scacciò la serva e si ritirò nella sua stanza, da sola, sprangando la porta.
Appoggiò il cofanetto su un ripiano e aprì la levetta di chiusura, subito le giunse un profumo inebriante. Sollevò il coperchio con circospezione: c’era una stoffa straordinaria che non aveva mai visto. Vi immerse la mano e la stoffa fuoriuscì dai bordi, impalpabile e sfuggente, come spuma di mare al sole.
Non aveva mai toccato nulla di così prezioso e ammaliante.
E non c’era cucita sopra nemmeno una fogliolina d’oro: il messaggio era chiaro, lui sapeva che non era facile entrare nelle grazie della principessa Tanaquil. Non si poteva affascinarla con l’oro. Lui voleva incuriosirla e tentarla tramite la sua stoffa preziosa, poiché non poteva farlo di persona.
Desiderava l’abbraccio di un uomo. Quanto lo desiderava…
Non aveva mai fatto l’amore, le sue amiche glielo avevano descritto con tanti particolari per cui poteva dire di sapere tutto del corpo di un uomo e delle sue voglie, ma lei aspettava qualcuno di speciale cui concedersi, i segni le avevano detto che avrebbe amato un vincitore, un grande condottiero. Lei continuava ad aspettare anche se le sue amiche erano tutte sposate e la famiglia, insieme all’intera città, le faceva pressioni. Il suo matrimonio avrebbe rinsaldato alleanze o ne avrebbe create di nuove.
In quegli ultimi giorni aveva creduto che l’uomo del suo destino fosse il principe Murinas, ricco e potente, e già vincitore contro i ribelli. Ma non era così, e lo indicava la sconfitta umiliante, che si era sommata alle sue incertezze, proprio nel giorno in cui lei doveva decidere. I segni non sono mai del tutto chiari, per fortuna gli dèi l’avevano aiutata.
Le sarebbe piaciuto che nel suo destino ci fosse invece il giovane uomo affascinante, lo straniero, il mezzo greco che aveva preso il premio dalle sue mani. L’aveva guardata solo un attimo, eppure era riuscito a farle capire che l’ammirava e la desiderava. Ma lui non era un cittadino, non possedeva nemmeno un palmo di terra. Per una come lei era niente. Qualunque cittadina di Tarquinia, anche di classe inferiore, si sarebbe sentita superiore a lui, ma se il principe Murinas aveva perduto con lui, questo doveva pur voler dire qualcosa.
E allora… se i segni non sono mai molto chiari, forse al destino si deve dare una mano.
La stoffa lucente tendeva a fuoriuscire dalla scatola, sembrava dotata di vita, anche nella stanza chiusa sapeva catturare qualche appena percettibile movimento d’aria. Ne prese solo un pizzico tra due dita e la sollevò di poco, la stoffa abbandonò la scatola per aprirsi sul tavolo e spandersi anche sul pavimento. Era affascinante e prepotente come lui.
E se avesse indossato la stoffa lucente?
Ma sì, per curiosità, solo per sapere che effetto le avrebbe fatto, giacché oramai il dono le era stato recapitato.
Si sfilò il vestito da sola, e non era facile, poi si drappeggiò addosso il tessuto. Ma c’era qualcosa che non andava, la sua biancheria, per quanto raffinatissima, sembrava un qualcosa di rozzo che si percepiva pure sotto due strati della stoffa e guastava l’insieme.

Tolse tutta la biancheria, rimase nuda e di nuovo indossò quel tessuto che sapeva catturare la luce. Giusto, aveva fatto bene, la stoffa morbidissima amava la sua pelle tenera e delicata, le si adattava con naturalezza. Ma c’era bisogno di un fermaglio sulla spalla, non poteva tenere l’abito con le mani, e si accorse che la sua fibbia preferita, in ferro e oro, con delle ochette sul dorso, era troppo pesante e faceva pendere da un lato l’abito, rischiando anche di strappare il tessuto. Riuscì infine a fermare la stoffa sfuggente su una spalla con una spilletta di ferro leggera e molto appuntita, senza ornamenti.
Armeggiando sudò, il profumo di cui era intriso l’abito si mischiò a quello del suo corpo e si fece più forte e penetrante, se ne sentiva inebriata.
Aprì leggermente uno scurino e si esaminò con lo specchio lungo tutto il corpo per vedere l’effetto d’insieme. Rimase senza fiato: l’abito era un niente, lasciava trasparire due punte brune sul busto e il piccolo incavo triangolare tra il pube e le cosce. E tutto il suo tenero corpo giovane sembrava esposto e glorificato.
Avrebbe dovuto toglierlo subito, ma si sentiva così eccitata, non smetteva di guardarsi nello specchio. Le sarebbe piaciuto scoprire cosa ne avrebbe pensato lui, l’uomo che sapeva quale effetto era in grado di suscitare il suo dono e aveva architettato tutto questo per attirarla a sé. Avrebbe dovuto sentirsi offesa, invece la cosa non le dispiaceva.
Lui immaginava il suo corpo avvolto nella stoffa leggera. E poi la colpì un pensiero travolgente. Sperava anche di vederlo con i suoi occhi? E poi di sfilar via l’involucro sottile con le sue stesse mani? Forse stava fantasticando troppo. O forse no. Lui era audace, pronto a cogliere l’occasione.
Mentre gli consegnava il premio, aveva il volto nascosto dai capelli scomposti, se li era scostati in un gesto automatico, e pur se rattristato dalla morte inutile del ragazzo, i suoi occhi ardevano per l’eccitazione della gara. Non aveva indossato il casco, forse per mettere in evidenza i suoi spessi boccoli bruni. Le sembrava di sentire ancora il suo odore mescolato a quello dello stallone assassino. Aveva preso il premio con le mani lorde di sangue, per accusare il principe Murinas. E lei voleva sentirsi addosso le sue mani: dunque l’abito doveva esserle tolto da lui. Prima da quest’idea fu spaventata, poi si sentì quasi pronta ad accettarla, ma ancora non del tutto.
Aprì lo scrigno dei gioielli, scelse la collana più bella e se la allacciò, ma lo specchio le disse che il monile non aggiungeva eleganza, piuttosto appesantiva l’insieme. No, la cosa più preziosa era lei stessa, era il suo corpo di ragazza nella stoffa lucida. Tanti sguardi maschili d’ammirazione e tanti complimenti collezionati da quando era una giovane donna da marito non l’avevano mai fatta sentire così bella e desiderabile. Ripose la collana e chiuse lo scrigno. Chi altri avrebbe potuto comprendere cosa stava provando, se non lui?
Se si fosse presentata da Lucumone, perché anche lei ormai usava nella sua mente quel nome, senza associarlo alla beffa, ma in segno di rispetto, lui cosa avrebbe fatto? Era un uomo capace di tutto, di questo si sentiva perfettamente cosciente, e infine comprese che desiderava sperimentarlo. E comunque, se poi alla fine fosse stata costretta a sposare il principe Murinas, voleva conoscere prima un altro.
E cosa avrebbero detto i concittadini se fossero venuti a sapere della visita? Ci avrebbe pensato dopo.
Indossò un mantello scuro senza ornamenti e uscì incontro all’ignoto evitando la serva che l’accompagnava di solito.
Lui all’alba era molto meno sicuro di sé. Non aveva mai visto una tale calma di fronte al portone d’ingresso: nessuno si faceva vivo prima di sapere quali sarebbero state le conseguenze del colpo di testa dello straniero. Anche la gente del popolo, dopo il momento di euforia, dopo averlo acclamato Lucumone, lo evitava per paura dei potenti. Meglio non farsi vedere insieme a Lucumone quel giorno a Tarquinia. Nemmeno suo fratello Arrunte, uomo pacifico, si era fatto vivo, forse per evitare discussioni.
La madre non parlava, ma presto lo avrebbe investito con le raccomandazioni ansiose e i consigli. Gli dispiaceva per lei e per tutte le persone che dipendevano dal suo paziente lavoro di diplomazia, che pareva accantonato all’improvviso. La sua era una pesante eredità. Nessuno gli aveva detto niente, ma di certo stavano facendo i bagagli per veleggiare verso un altro approdo, quando i principi lo avessero cacciato. Al suo seguito, oppure no? Giusta domanda… C’era già un altro capo pronto a guidarli? Che insuccesso sarebbe stato per la famiglia… Avrebbe pagato caro l’entusiasmo del momento che precede la gara.
Si fece portare una coppa di vino molto allungato e del cibo frugale; piluccò dal vassoio senza sedersi, come faceva di solito nel seguire gli affari, ma era distratto, e pure Filaco ritenne giusto andarsene, dopo averlo informato, con una certa aria di sconforto e un fondo di accusa negli occhi, che a Tarquinia si parlava solo di lui.
«Padrone» bisbigliò un servo, «c’è una donna con un messaggio da parte della signora Tanaquil, ma deve riferirlo a te personalmente.»
«Falla entrare.» Lei mandava una sua donna a ringraziare. Meglio di niente, ma gli obiettivi erano lontani, irraggiungibili.
Preceduta dal servo, una figura femminile a capo chino avanzò nella stanza. Ma che belle calzature per quell’anonimo mantello… e lui col suo naso fine riconobbe un certo profumo.
Era lei. Sentì un tuffo nel petto, ma si impose di non mostrare l’interesse e l’inquietudine che lo attanagliavano. Per fortuna la ragazza continuava a stare a capo chino.
«Vieni avanti, quale messaggio mi manda la signora Tanaquil?» disse mentre faceva segno al servo di andarsene e chiudere dietro di sé la porta.
«La mia signora ti ringrazia del regalo.»
«Dunque l’ha apprezzato?»
«Molto, la mia signora dice che non aveva mai visto niente di tanto bello.»
«Quella stoffa ha viaggiato tre anni per giungere qui. È stata trasportata su monti bianchi di neve, deserti infuocati, fiumi e mari. Ma riferisci alla tua signora che niente è abbastanza bello per lei.»
Finalmente Tanaquil sollevò gli occhi da terra e si accorse dello sguardo di lui ansioso e perplesso, lo interpretò come l’atteggiamento di chi si trova davanti alla più grande occasione della sua vita e vuole metterla a frutto. Quello sguardo sparì all’istante, forse lo aveva solo immaginato. Si sa che la prudenza non è mai troppa, eppure lei non era là per diffidare a priori. Sorrise per niente imbarazzata e lasciò scivolare il mantello, che le scoprì i capelli e si aprì sul davanti rivelando la stoffa lucente.
Tenne le braccia abbandonate sui fianchi, ma non si aspettava la reazione rapida di lui, che si avvicinò, le strappò il mantello dalle spalle e lo gettò da parte.
Ora guardava col massimo agio tutto quello che lei aveva visto pezzo per pezzo rimirandosi nello specchio. Che pensava della sua figura snella, un po’ acerba, l’uomo che aveva le concubine più belle di Tarquinia, comprate in tutti i mercati conosciuti? Forse era troppo magra? E comunque, perché fare certi confronti? Lei non valeva per le sue grazie, ma per quello che rappresentava.
Intanto vide il volto di lui diventare impenetrabile: ora sapeva di essere riuscito ad attirarla, di aver acquistato potere, e forse pensava a come esercitarlo. Era così audace e ambizioso da pensare di servirsi della principessa Tanaquil. Il dovere di Tanaquil della grande stirpe dei Silqetenas era fermarlo, rimetterlo al suo posto. Eppure aveva compreso tanto di lei… In verità non le importava dei suoi scopi al momento, ci avrebbe pensato dopo, dopo aver fatto l’amore con lui, l’uomo astuto e forte che era riuscito ad attirarla a sé.
Le sue intenzioni sono inequivocabili, pensava lui, e la trovava più bella e desiderabile di quanto avesse mai sospettato, quando era coperta di gioielli e inavvicinabile. L’oro aveva sempre offuscato lo splendore della sua pelle e dei suoi occhi.
Ma temeva che fosse là per uno scopo ben preciso, forse per non donare la sua verginità all’uomo che la città le imponeva, o con maggiore probabilità solo per divertirsi, per raccontare alle amiche di aver giaciuto con lo straniero che aveva battuto i principi in una gara durissima. L’uomo di cui tutti parlavano in quel momento.
Bene, avrebbe fatto in modo che raccontasse alle amiche che lui era un tenero e disponibilissimo amante, duro e resistente come bronzo; anche le sue amiche avrebbero voluto provarlo.
L’attirò a sé e la baciò teneramente sui capelli, sul collo e sul volto e arrivò alla bocca piccola e dolce, che sembrò prima inesperta, poi prese i suoi ritmi e rispose con ardore ai baci.
Cercò di aprire la spilletta di ferro, ma sembrava davvero troppo piccola per le sue mani, allora l’aprì lei e, mentre lui si scostava per vedere l’effetto, si lasciò cadere ai piedi la stoffa cangiante.
Com’era tenera e dolce, nuda di fronte a lui, e lo guardava in attesa che le mostrasse il suo corpo, senza nascondere la curiosità. Lasciò da parte tutti i suoi sospetti, si tolse di dosso la tunica, offrendosi al suo sguardo. Lei si fece avanti per accarezzargli le spalle e il petto. Si soffermò poi sulla sua erezione con uno sguardo di meraviglia. Le scostò le mani e la lasciò solo qualche breve istante in cui raccolse furiosamente tutte le stoffe e i drappi presenti nella stanza per crearle un confortevole giaciglio, poi la prese tra le braccia e ve la adagiò.
Non poteva possederla subito, anche se lo voleva, continuò ad accarezzarla ricambiato e le sue manine da timide si fecero sempre più esperte, risvegliando in lui un desiderio che mai aveva provato.
I suoi seni piccoli e sodi gli stavano nelle mani e i capezzoli induriti lo eccitavano sempre di più.
Solo a lei, alla principessa Tanaquil, poteva essere tributato il supremo omaggio che mai lui aveva dedicato a nessuna donna e credeva mai avrebbe dedicato, poiché tra la sua gente d’origine chi lo faceva era oggetto di derisione e osceni insulti. Le aprì le cosce e vi immerse il volto. Guardò la piccola vulva rosea e tenera, che sotto il suo sguardo si faceva sempre più umida e lucente. Immerse la lingua nella stretta apertura, poi quando lei si inarcò vi fece indugiare la punta dura del suo membro e infine la penetrò all’improvviso, facendola urlare.
Fu un attimo travolgente, che fece durare finché poté, ma finì troppo presto comunque. Sapeva che non si sarebbe mai più ripetuto nella sua vita, e intuiva che per lei era lo stesso. Gli si affidava completamente, appoggiata sul suo petto lo accarezzava.
Dunque, se davvero poco prima era una vergine, avendo rifiutato tanti cittadini illustri, che cosa l’aveva portata fino a lui? Non solo la ricerca del piacere.
«Puoi andartene adesso e non vedermi mai più, non dirò a nessuno che sei stata qui.» Ma gli dèi sapevano che non avrebbe voluto perderla.
«Adesso mi mandi via?»
«Io vorrei che restassi con me, ma tu sei la donna più contesa della città. Non voglio danneggiarti e farmi altri nemici. Sono responsabile di tante persone.»
«Ah… e perché mi hai mandato quella stoffa?»
«Perché ti desideravo. Speravo che tu la accarezzassi, era un modo per avere un contatto con te.»
«E adesso ne sei pentito?»
«No, e tu lo sai.»
Ma lei non era una sciocca. «L’hai fatto per avere la mia protezione?»
Erano al dunque, negando avrebbe perduto la sua stima. «Anche, in te vedevo tutto l’amore e la buona fortuna. Vedevo la realizzazione dei miei sogni. Ho agito da pazzo, pensa che immaginavo di chiederti in moglie: l’innamorato fa cose sciocche.»
«Chi vuole deve osare…»
Fu interrotta, era Filaco, che bussò, aprì con decisione la porta e poi guardò trasecolato lei e Lucumone, che la copriva sollevando con uno strattone un lembo di stoffa dal giaciglio sotto di loro.
Si riprese presto. «C’è un messaggero del principe Murinas.»
«Adesso non voglio riceverlo.»
«Vai» disse Tanaquil. Lucumone indossò una tunica e uscì, lei si avvolse nel mantello, si avvicinò in punta di piedi e si mise ad ascoltare dietro la porta.
Al principe non era bastato il ragazzo dagli occhi grigi, voleva la testa del cavallo assassino. Lucumone fece solo un cenno di diniego sbattendo la porta e tornò nella stanza. Si sdraiarono di nuovo scrutandosi. Lei scorse un fondo di preoccupazione che Lucumone non poteva nasconderle. Il sogno era durato poco, dovevano scontrarsi con la realtà, con quello che la città pretendeva da entrambi.
«Hai fatto bene: quando si saprà che io ti sposerò non ci sarà risarcimento che tenga.»
«Allora mi sposerai?» disse Lucumone, senza nascondere l’incredulità e la meraviglia. Ma lei ormai meritava fiducia.
«Sì.» La sua decisione era presa.
«Rifletti bene. Questo è solo l’inizio, non si sa che vorranno ancora. Forse vorranno anche la mia testa. Attaccheranno la tua famiglia.»
«Sarà una battaglia dura, ma ormai il mio destino è legato al tuo. Ti aiuterò ad avere la considerazione che meriti.»
Lui si chiese se si poteva amare di più di quanto amava quella giovane straordinaria, che in breve tempo era diventata parte essenziale della sua vita. Ormai non poteva immaginare un futuro senza Tanaquil. Ma lei non sapeva a quante amarezze andava incontro.

✤ ✤ ✤

CAPITOLO II

L’assemblea per deliberare l’ammissione di Lucumone tra i cittadini si era riunita. Ottenere tutto ciò era stato un lavoro di diplomazia complesso, condotto dal padre di Tanaquil, che aveva sensibilizzato i principi con l’oro dello straniero. La riunione tanto delicata per le sorti della città, poiché avrebbe potuto rappresentare una rottura col passato, si stava svolgendo a porte chiuse. Lucumone attendeva l’esito al porto, nella residenza accanto ai magazzini, insieme a sua madre Larthia e a Sethra, che era diventata la moglie di suo fratello Arrunte. Trattenere Tanaquil era stato impossibile, era balzata su un cocchio all’alba per raggiungere la madre al palazzo dei Silqetenas. Piegandosi al volere di Tanaquil, i genitori si erano trovati a fronteggiare l’ostilità dei principi e la voglia di vendetta del principe Murinas, che aveva fatto della balzana scelta di vita di Tanaquil un cavallo di battaglia per minare il potere dei Silqetenas. Al momento era solo l’oro di Lucumone a scongiurare la catastrofe. Inoltre il principe aveva costretto quel certo giovane gaudente, che affittava la sua casa a Lucumone, a rescindere subito il contratto, così Lucumone si era ritrovato senza una dimora entro le mura. I due sposi passavano molti giorni nel palazzo dei Silqetenas, ma lui tornava ogni mattina presso i suoi, al porto, per seguire da vicino gli affari, parlare con gli intendenti, gli architetti e i capitani delle sue navi, controllare le operazioni di scarico delle merci, e, cosa che amava sopra tutte, seguire le sue vele in partenza finché non si confondevano all’orizzonte, immaginando nuovi incontri, nuove genti, nuove merci. Ma non era più partito, non se la sentiva di lasciare sola la prestigiosa moglie che ancora riceveva doni e proposte di matrimonio, come se lui nemmeno esistesse.
L’unico suo potere era l’immensa ricchezza.
In quegli anni di traffici intensi col Levante, in cui le aristocrazie di Tarquinia sfoggiavano manufatti orientali come segno di prestigio, continuava a procurare ai principi merci orientali, e loro, sempre con una certa sottile ironia, che lui aveva imparato a cogliere già da tanti anni, continuavano ad arricchirlo ancora. Per ricordagli di stare al suo posto, gli dicevano che era il mercante più audace, perché era la sua natura. Come mercante lo accettavano, ma non come concittadino. La ricchezza è niente senza la terra, la ricchezza è un mezzo, uno dei tanti, non il fine. Sapevano quanto fosse antica la sua stirpe: la sua famiglia discendeva dall’eroe Eracle ed era nobile e ricca quando loro ancora si vestivano di pelli, ma la schiatta potente era stata abbattuta da Cipselo e il padre di Lucumone era fuggito da Corinto per evitare la morte. Nei banchetti di Tarquinia non si era mai parlato tanto del tiranno Cipselo. Stava pensando di trasferirsi a Naucrati. Là una donna elegante come Tanaquil sarebbe stata molto apprezzata, ma l’altera principessa avrebbe dimenticato la ripulsa dei concittadini? No, non era da lei rassegnarsi. Ogni giorno faceva e disfaceva progetti su come trasportare le sue ricchezze. Temeva che i principi le sequestrassero. Ma trasferirsi non era facile e non offriva una vera soluzione ai problemi. Naucrati era solo un altro porto dove gli stranieri erano tollerati perché apportavano novità e benessere; restava, però, un luogo di passaggio, in cui allo straniero era permesso soltanto venerare i suoi dèi e sentirsi protetto prima di affrontare di nuovo i flutti.
Lui voleva essere un cittadino stimato di una città. Voleva la terra.
Oppure c’era un’altra via, mettersi a fare apertamente il pirata, come facevano un po’ tutti quando le vele erano lontane dai porti amici. Lui, col numero di navi e di armati che poteva pagare col suo tesoro, sarebbe stato in grado di conquistare una rocca, o anche una città. E forse nel tempo sarebbe riuscito pure a far legittimare la conquista. Ma Tanaquil come l’avrebbe presa? Chissà se essere la regina di una fortezza a picco sul mare l’avrebbe soddisfatta… No, non era possibile, lei giudicava se stessa attraverso gli occhi delle persone che stimava, la fuga non le avrebbe dato soddisfazione. Tanaquil tornò presto, brutto segno. Non avevano discusso molto i partecipanti all’assemblea. Si fermò nella corte con i cavalli scalpitanti. Quando le andò incontro, gli gettò le braccia al collo e pianse, ma si riprese presto, sapeva che ai Greci che la stavano osservando perplessi, servi e intendenti, non piacevano le manifestazioni pubbliche di amore coniugale.
«Devo parlarti» gli disse.
«Lascia stare, so già cosa mi vuoi dire…»
«Ma stavolta i principi hanno motivato il rifiuto. In pubblico hanno detto che non si può sovvertire l’ordine benedetto, ma non hanno nemmeno preso gli auspici. In realtà temono che si torni al predominio di una sola famiglia, hanno paura del tesoro e della mia bravura come indovina: se tu fossi un cittadino, avresti diritto alla terra e a combattere nell’esercito di Tarquinia. Forte della tua ricchezza e dei miei consigli, diventeresti davvero troppo potente, li annienteresti. Dunque se non mi avessi sposato…»
«Non mi avrebbero nemmeno preso in considerazione.»
«Ma loro vogliono che il tesoro rimanga qui e che anche io rimanga qui, perché come indovina renderei potente chi mi ospiterà. Hanno fatto un’offerta per i figli che avremo.»
«E i miei compagni?»
«No, per loro non c’è niente da fare.»
«E allora non se ne fa niente, non li lascio indietro. Ma parleremo quando saremo soli, adesso stanno per arrivare ospiti. Tre navi da Lemno hanno gettato l’ancora e ho invitato i viaggiatori nella nostra casa. Tutti abbiamo prospettive di concludere ottimi affari. Preparati, ti voglio più bella del solito. Puoi partecipare alla cena, insieme a mia madre e a mia cognata, poi ci saranno intrattenimenti che gli aristocratici greci non vorranno condividere con donne onorate.»
Quando lei fece il suo ingresso nella sala grande con un abito sottile e aderente e splendidi gioielli, tutti gli occhi curiosi dei Greci, che avevano sentito parlare della bella principessa, le furono addosso. La lasciarono presto perché quella donna audace che non abbassava lo sguardo era pur sempre la moglie del loro ospite, e soprattutto era figlia del principe Silqetenas, che le aveva trasmesso il suo sapere, dunque era un’indovina potente. La suocera e la cognata le erano accanto, anche loro ornate di meravigliosi gioielli. Larthia aveva fatto preparare ogni cosa con grande raffinatezza. La sala ampia era decorata con rami di piante di buon augurio e, per ricordare l’origine nobile dell’ospite, con stupendi vasi di Corinto. I letti erano coperti di drappi preziosi, numerose lucerne facevano risplendere i ricchi servizi da tavola e gli ori dei convitati. Profumi d’Oriente bruciavano negli incensieri. Tanaquil si sdraiò insieme al marito, mentre le altre due donne si sdraiarono vicine, sotto la stessa coperta. Quando tutti ebbero preso posto comparvero le suonatrici, poi i danzatori, e si produssero in un breve spettacolo per introdurre giovani serve eleganti, che entrarono in corteo depositando sulle mense vassoi colmi di carni prelibate e verdure fresche. Le pietanze suscitarono i complimenti sinceri degli uomini che avevano solcato i mari cibandosi soprattutto di polente e carni essiccate. Fanciulli nudi attinsero il vino dai crateri. Ognuno degli aristocratici greci aveva con sé la propria coppa d’oro istoriata. Versarono al suolo qualche goccia di vino libando in onore degli dèi e il banchetto iniziò al suono della cetra. Lucumone si rivolse con garbo agli ospiti: «Voi che solcate i mari sulle rotte di Ulisse, di Nestore, dei grandi guerrieri e navigatori, portando presso gli altri popoli le usanze e le storie della madrepatria, siete graditi ospiti presso la mia modesta casa, ma domani sarete ospiti nel palazzo a Tarquinia di mio suocero, il principe Silqetenas, che sarà onorato di ascoltare i vostri racconti, e il giorno dopo vi inviterà a una battuta di caccia sulle sue terre, dove i cinghiali stanno rovinando i raccolti».
Ognuno dei Greci parlò della sua famiglia e delle sue origini, anche Lucumone magnificò le proprie, poi sollecitò garbatamente il più anziano dei navigatori a raccontare come fosse andato il viaggio e quali famiglie li avessero ospitati agli approdi. Dietro il sorriso artefatto, il finto apprezzamento per le vivande e il flabello prezioso, con cui ogni tanto si copriva il volto quando le lacrime volevano affiorare, Tanaquil era disperata, si chiedeva come facesse il marito a essere così tranquillo. Con il suo corpo rilassato e accarezzandole di tanto in tanto la spalla, o sfiorandole i capelli, le comunicava l’intento di non mostrare agli ospiti la delusione cocente subita quel giorno. Lei non era calma, non era riuscita a mantenere la promessa di aiutarlo e nemmeno a scalfire la risolutezza dei principi. La sconfitta era anche un fiero colpo al suo orgoglio. Sorrideva e annuiva, ma solo a tratti ascoltava il racconto dell’anziano navigatore, sdraiato al posto d’onore poco lontano da lei. Infine si costrinse a prestare maggiore attenzione per essere cortese e fare qualche domanda pertinente.
«Di solito la nostra ultima tappa era in Sicilia» disse il navigatore, «ma abbiamo sentito parlare dello splendore delle città etrusche, e dunque per amore di conoscenza, tenendo in serbo alcune merci raffinate da scambiare, abbiamo deciso di risalire lungo le coste tirreniche. Ormai siamo anche decisi a passarvi l’inverno, comunque le nostre navi sono quasi cariche e a primavera torneremo direttamente a casa. E poi questo per me è l’ultimo viaggio. Tornato in patria, se gli dèi lo vorranno, farò parte di coloro che attendono i ritorni.»
Fece una pausa per bere una lunga sorsata di vino dalla coppa d’oro.
«Sostando a Pithecusa, avevamo progettato di venire direttamente qui e proseguire per vedere l’Elba fumosa e visitare quei luoghi degli Etruschi dove vengono lavorati i metalli fulgenti che giungono a noi in gran quantità, ma a Pithecusa ci hanno parlato di Roma e abbiamo deciso di fare anche là una breve tappa.»
È il momento di intervenire, pensò lei, così in seguito sarò esentata. «E perché mai proprio a Roma? Cosa aveva suscitato la vostra curiosità?» Roma non poteva certo vantare gli splendori delle città etrusche. «Ci avevano narrato di questa città un po’ latina, un po’ sabina, un po’ etrusca, anche un po’ greca, che combatte per affermarsi e per farsi spazio. Una città dove gli stranieri sono molto apprezzati e invitati a rimanere, e spesso anche accolti nel corpo civico…»
Lei sentì un colpo nel petto, lasciò cadere sul pavimento il flabello, e un’ancella si precipitò a raccoglierlo.
«A Roma la cittadinanza non è legata al sangue, in questo modo Roma ha potuto ingrandirsi e combattere le città vicine» continuò il navigatore.
«Addirittura Roma ha solo re stranieri. Siamo stati ospiti dei Marci, i parenti del re Anco Marcio.»
Lei stava per interloquire e chiedere maggiori informazioni, fu l’assoluta immobilità di Lucumone, che pure aveva udito le parole dell’ospite, a renderla meno irruente. Lui fece segno ai servi di far entrare la muta da caccia e, mentre i cani si avventavano sui resti di cibo sotto i letti, le mormorò nell’orecchio: «Non far mai capire a nessuno cosa hai in mente, amore mio, è pericoloso».
«Certo Roma non è una città raffinata» continuò il Greco, appena si fu affievolito il baccano, «ma vuole diventarlo, questo ho compreso come ospite dei familiari del re. Intanto accetta stranieri perché ha bisogno di cittadini per l’esercito e di artigiani specializzati per essere abbellita…»
Un servo annunciò il ritorno della nave di Arrunte, in viaggio da circa un mese per trasportare stagno. Finito il pasto, prima del simposio, le donne si congedarono. Quando Lucumone entrò nella stanza, lei non dormiva, era seduta sul bordo del letto.
«Speravo tu dormissi.»
«Che pensi del discorso dell’aristocratico greco?»
«Ah… è molto interessante. Ma come chiedere alla mia gente di cambiare abitudini e lingua un’altra volta? Come mi giudicheranno? Non sono stato in grado di proteggerli.»
«Non è colpa tua. Nessuna città degna di questo nome accetta stranieri nel corpo civico, ma Roma sì. È molto strano. Perché su Roma non ci informiamo meglio? Là c’è una grossa comunità etrusca che potrebbe accoglierci.» «Non è detto, probabilmente seguiranno le direttive delle città di origine.»
«Ma io vorrei saperne di più.»
«Va bene. Non nutro molte speranze, ma te lo devo: appena gli ospiti saranno in partenza andremo io e Filaco a Roma a guardare le cose da vicino. Io parlo un po’ di latino, ma Filaco lo parla meglio di me.» «Ci sono molti Etruschi a Roma…»
«Al dunque sapremo come cavarcela senza fare troppa propaganda alle nostre intenzioni. Ma i Romani ti sembreranno molto rustici, amore mio. Paghiamo un pedaggio per passare sulle loro terre, ma non comprano oggetti di grande pregio. Io non ho mai preso in considerazione l’idea di fermarmi presso di loro.»
«Meglio ben accetti tra gente semplice che vivere così, come sospesi, aggrappati a sogni irrealizzabili. Sto rovinando la mia famiglia: tra poco mio padre, pure soffrendo, dovrà separare il destino dei Silqetenas dal nostro. Credi che mi importi del lusso? Vivere in un palazzo mi interessa solo per quello che rappresenta.»
Passarono notti intere a parlare del progetto, pur esausti dopo i banchetti e le battute di caccia, finché gli ospiti greci si trattennero e gli affari furono conclusi, ma a loro non chiesero mai più nulla di Roma. Una sera Tanaquil, dopo aver preso gli auspici, si mostrò ancora più decisa. «Saremo noi a fare grande la nostra futura città» disse, «ne abbiamo i mezzi e le capacità.»
Intanto Arrunte era ripartito, si era diretto verso l’Elba fumosa, con un carico di ceramiche raffinate, olio e legname, da scambiare con metallo, ma si era detto d’accordo a trasferirsi, se fosse sembrato conveniente. Come al solito si rimetteva alle decisioni del fratello. Sarebbe tornato presto, in tempo per imballare ogni sua cosa e partire con loro portando anche Sethra, la moglie etrusca.

✤ ✤ ✤

CAPITOLO III

Lucumone e Filaco si erano allontanati a cavallo di notte senza scorta, vestiti semplicemente, coi capelli arruffati e i volti coperti dai mantelli, dirigendosi a meridione. Nella bisaccia Lucumone, nascoste sotto forme di cacio e pani, trasportava una pesante coppa in oro inciso, per farne omaggio al re, e una splendida collana destinata alla regina.
I volti amati di Tanaquil, Larthia e Sethra, pieni di speranza, illuminati dalle braci del focolare, lo accompagnavano, li portava dentro di sé come un segno di buon augurio. Il giorno dopo col sole alto attraversarono il ponte di legno sul Tevere e giunsero all’approdo di Roma. Là sorgeva l’antichissimo altare di Eracle: trovare un culto del capostipite non appena giunti a Roma sembrò di buon auspicio. Presero alloggio in una locanda fuorimano e chiesero informazioni sul re Anco Marcio e sui nobili più importanti. Seppero, da qualcuno del partito avverso, che Anco, nipote del re Numa Pompilio, aveva ucciso il suo predecessore Tullo Ostilio con tutta la sua famiglia, incendiandogli la casa, e poi aveva messo in giro la voce che Giove, irato con Ostilio perché aveva compiuto sacrifici senza attenersi ai riti perfezionati da Numa, aveva punito il trasgressore lanciando il fulmine sulla sua dimora. Ma era molto più grande il numero di quelli che amavano il re ed erano in grado di produrre esempi di come avesse a cuore la città. Filaco, meno conosciuto, scese al mercato per avere notizie più obiettive dai mercanti etruschi e greci. Al ritorno raccontò che a Roma potevano diventare re non solo latini o sabini, ma anche stranieri venuti da più lontano, se ritenuti degni. Il re Anco Marcio, eletto da otto anni, aveva costruito il ponte sul Tevere e aveva conquistato alcune città latine. Era un uomo amante delle novità orientali, infatti aveva introdotto il culto della dea Fortuna Barbata, di cui la regina era sacerdotessa. Quando i due si univano, il re di Roma si univa alla dea, proprio come i monarchi orientali, portando prosperità alla città. Il re viveva accanto alla casa delle vestali, poiché esercitava su di loro la patria potestà. Le vestali erano sacerdotesse vergini, custodivano il fuoco della città e in un luogo nascosto conservavano un fallo, che avrebbe potuto fecondare una di loro per far nascere un eroe importante per le sorti di Roma. Così era nato Romolo, il fondatore; ma molti erano certi del fatto che fosse nato da una vestale e un uomo comune, molti altri giuravano che fosse un bandito qualunque, figlio di una prostituta.
«Mah… mi piacciono questi Romani» disse lui.
Passarono molto tempo a comporre e mandare a memoria i discorsi da tenere di fronte al re.
All’alba del giorno dopo si ripulirono e acconciarono meglio i capelli, indossarono abiti di buona stoffa, e si avvicinarono alla casa del re. Ma Lucumone teneva un lembo del mantello sul volto.
Per quanto ormai sapessero che a Roma il re non abita una casa più imponente di quelle degli aristocratici, la dimora ai due apparve comunque modesta. Il palazzo dei Silqetenas era più grande, meglio arredato e ricco di suppellettili orientali. Eppure notarono col loro occhio esperto che la casa del re, unica in città, vantava un tetto di coppi colorati, secondo la tecnica etrusca importata dalla Grecia da Demarato, padre di Lucumone. «Chissà» disse lui «quale importanza potrebbero rivestire le competenze tecniche in questo luogo.»
«Lo vedremo» disse Filaco, e abbordò il servo di fiducia del re, chiedendo un’udienza privata per il suo signore.
L’occhio acuto del servo li valutò all’istante. «Chi è il tuo signore?»
Filaco diede un nome falso e gli mise tra le mani un bracciale d’oro. «Questo è per sdebitarci dei tuoi buoni uffici. Fa parte di una coppia. L’altro arriverà quando avremo conferito col re dei Romani.»
Il servo fece sparire all’istante il dono in una scarsella. «Vedo che non avete tempo da perdere, e non avete bisogno di un interprete.»
«Cercheremo di cavarcela» disse Filaco.
Il servo si dileguò. Attesero nel portico davanti alla sala delle udienze piena di gente, mentre il re, attorniato dai consiglieri, riceveva la delegazione di una città latina, poi dirimeva alcune liti ed emetteva le sentenze. Loro ripassavano i discorsi mormorando. Poi ricomparve il servo e fece cenno di seguirlo; evitando con fare consumato i postulanti, li condusse nella corte privata. Là furono perquisiti e disarmati. Oltre un alto muro si intravedevano gli alberi del bosco di Vesta e da lì provenivano voci di donne. Le sacerdotesse. Il re giunse presto, scortato da due guardie. Loro si inchinarono all’uso orientale e questo sembrò fargli piacere. Era un uomo grosso e forte, dagli occhi penetranti. I capelli e la barba cominciavano a incanutire. Filaco presentò i doni. Quando da un sacchetto di stoffa scura emersero la tazza d’oro e la larga collana, il re non trattenne un’esclamazione di meraviglia. Disse al servo di mettere la tazza tra gli oggetti più preziosi in mostra nella sala delle udienze e fece chiamare un’ancella della regina per consegnarle la collana. Poi il re sedette, mostrando di avere tutto il tempo necessario per ascoltare la supplica di visitatori tanto generosi, così Filaco cominciò a raccontare la fuga da Corinto della loro gente e l’arrivo a Tarquinia.
«Oh potente signore, mi chiamo Filaco, figlio di Sosicle, sono qui a presentarti il mio signore Licomede, figlio di Demarato, della grande stirpe dei Bacchiadi, discendenti di Eracle, di cui tu avrai certamente sentito parlare.» «Abbattuta da un consanguineo, Cipselo, il tiranno, che ha fondato la dinastia dei Cipselidi» precisò il re. «Alla mia mensa ho ospitato molti navigatori provenienti da Corinto.»
«Non Bacchiadi, credo, o potente signore, poiché sono stati uccisi quasi tutti. Oggi hai l’opportunità di ascoltare la voce di chi è riuscito a scampare alla furia di Cipselo, non perché fosse poco importante, ma per la sua astuzia.»
«Ne sono convinto» disse il re. «E so con quale nome è meglio conosciuto il tuo signore: Lucumone, un uomo di grandi qualità che mai avrà onori.»
Lucumone sussultò come se avesse ricevuto una sferzata e poi rimase immobile.
«Ma continua» disse il re.
Filaco era rimasto basito, ma fu solo un attimo. Parlava un latino abbastanza fluente, e poi con la sua solita puntigliosità si era ben preparato. Riprese il discorso, il re comprendeva e annuiva. «Nel tempo in cui gli dèi partecipavano attivamente alla vita degli uomini, Corinto era una città molto prospera, la sua rocca controllava un emporio ricco di acque, dove il viaggiatore soggiornava felice. Il fondatore fu Sisifo, che fece sgorgare le sorgenti, a lui succedettero sei re, finché giunse Alete, discendente di Eracle, che cacciò i discendenti di Sisifo e instaurò la dinastia degli Eraclidi. Al tempo dell’Eraclide Bacchide la casata cambiò nome, divenne dei Bacchiadi. Ventotto anni fa il potere dei Bacchiadi fu abbattuto da un Bacchiade per parte di madre, Cipselo. Ed ecco la sua storia. La figlia del Bacchiade Anfione era nata zoppa, le era stato dato il nome Labda. Nessuno dei Bacchiadi la volle in moglie, così il padre la diede a Etione, del popolo violento dei Lapiti. Dall’unione nacque Cipselo. Gli oracoli predissero che il figlio di Labda avrebbe distrutto i Bacchiadi, e loro tentarono di eliminarlo, ma la madre lo salvò nascondendolo in un’arca, kypsele. Da qui il nome.»
Il re fece un breve cenno d’assenso per dire che conosceva qualche parola di greco. «Cipselo entrò da adulto in Corinto e diventò capo dell’esercito. Una notte con i suoi uomini assalì e soppresse la stirpe dei Bacchiadi: gli oracoli si erano avverati e il popolo accolse Cipselo come tiranno.
Solo alcuni Bacchiadi si salvarono dall’eccidio. Il Bacchiade Demarato, padre del mio signore, prevedendo la disfatta, aveva da tempo imballato le sue cose più preziose e preparato una nave. Di notte prese il largo. Conduceva con sé un aedo, fabbricanti di armi, costruttori e maestranze esperte, tra cui molti ceramisti, e il bel tetto della tua dimora è un esempio della loro competenza. Demarato era ricchissimo, grazie alla sua perizia aveva accumulato una fortuna enorme per un solo uomo. Giunse sulle coste dei Tirreni, che già conosceva per i suoi commerci, e si fermò ben accolto a Tarquinia, dove sposò un’aristocratica etrusca.
Oggi Lucumone, figlio di Demarato, esperto in molti campi come il padre, ti offre i suoi servigi.»
Filaco si inchinò e si fece da parte. Il volto del re era sempre improntato a grande maestà, ma gli occhi scuri fissavano Lucumone senza celare l’interesse profondo. Infine si alzò, e con un gesto della mano fece allontanare i servi e le guardie. «Facciamo una passeggiata» disse. «L’età si fa sentire, soffro a stare tanto tempo seduto, e poi soffro a stare tanto tempo in piedi.»
Lucumone lo seguì in silenzio, mentre si dirigeva verso il muro confinante con il bosco sacro a Vesta. E all’improvviso il re si girò e lo osservò direttamente. Vedeva qualcosa che gli ricordava se stesso da giovane, intuì lui. Potenza fisica, coraggio e astuzia. Capì di piacergli.
«Adesso siamo soli, Lucumone. So perché porti questo nome. Dimmi cosa cerchi presso di me. I principi di Tarquinia non ti soddisfano più? So che hai osato molto. Si dice che hai conquistato la figlia indovina dei Silqetenas con le tue arti amatorie, e qualcuno dice con un filtro confezionato da una delle tue concubine orientali. Ma io propendo per le tue capacità, e non solo di amante, che l’indovina ha saputo apprezzare, appunto perché è un’indovina. Allora, che hai da ribattere? Fammi udire la tua voce. Anch’io sono padre di figlie femmine molto ambite.»
Gli aristocratici romani si tenevano informati sugli aristocratici delle città etrusche, e dunque l’eco della sfida tra i Murinas e i Silqetenas era giunta a Roma, ma che il re sapesse tanto e avesse anche intuito tanto dei rapporti suoi con Tanaquil solo osservandolo, e forse pensando a cosa avrebbe fatto in prima persona per conquistare la principessa, per un attimo lo fece sentire esposto. Quell’uomo potente che vedeva in lui tanto di sé meritava la verità o qualcosa di molto vicino. Addio al bel discorso preparato. Improvvisò, e trovava a fatica le parole, ma il re attendeva con pazienza e a volte gliele suggeriva.
«La principessa mi ha sposato senza curarsi dei pretendenti etruschi, e ciò ha offeso i principi. Ha compiuto questo passo difficile perché cerca il meglio. Il meglio per lei è quello che le viene indicato dai presagi. Non è una donna comune, non fa mai quello che gli altri si aspettano, per questo inventano menzogne su di noi. Chi avrebbe potuto credere che sposasse uno straniero senza terra? Io qualcosa per influenzarla ho fatto, e non lo nego, non molto però, sono stati gli dèi a indicarle il cammino.»
«Ah.. Dunque tu sei apprezzato dagli dèi.»
Era un boccone troppo ghiotto: «Comincio a pensarlo. Prima avevo creduto che Eracle mio capostipite e Zeus suo padre mi avessero abbandonato».
«Continua.»
«Tanaquil mi ha spinto a venire qui, poiché gli auspici sono favorevoli.»
«Prenderò anch’io gli auspici.»
«Chi mi farà cittadino riconoscendo i miei meriti, e farà cittadini gli uomini e le donne al mio seguito, trarrà grandi benefici dalla mia ricchezza e dalla mia perizia. Conduco con me ceramisti, fabbricanti di armi, costruttori di palazzi, di templi, di fortificazioni, di opere idrauliche. Se ci mettessi le mani io, ti scorderesti questo puzzo intorno alla tua dimora.»
«Eh… in tutti i modi hanno tentato di eliminarlo…»
Il re rise apertamente e lo toccò addirittura, per un attimo gli sfiorò una spalla. «Ieri ho sacrificato a Fortuna chiedendo un aiuto. Forse questo aiuto è giunto? In molti mi ostacolano. Sapessi quanto ho lottato per costruire il ponte sul Tevere… è di fondamentale importanza, ma la fazione aristocratica avversa non lo voleva. È difficile far accettare i cambiamenti. I Romani per natura sono curiosi e aperti alle novità, ma c’è un gruppo di aristocratici che vuole fermare tutto con i divieti sacrali. Il mio vero nemico è l’augure Atto Navio. È un uomo potente e vuole mantenere la città come al momento della sua fondazione, un momento perfetto, certo, irripetibile, ma se Roma non si adegua ai tempi diventerà preda di una città etrusca. Gli Etruschi non sono sciocchi, insieme ai nuovi culti e agli oggetti di lusso, importano dall’Oriente anche nuove tecniche di combattimento, ma i miei oppositori vogliono che l’esercito di Roma rimanga quello di cento anni fa. Non mi aspetto di morire nel mio letto, poiché difficilmente un re muore di vecchiaia, e pagherò questo tributo, ma prima vorrei abbellire Roma, perché possa rivaleggiare con le città etrusche e acquisire una nuova mentalità, ed è per questo che mi interessa che tu sia un esperto costruttore. Dopo di me probabilmente regnerà un uomo di Atto Navio e ho paura che la città rimanga indietro.»
Tanaquil aveva visto molto lontano, riconobbe lui: lasciata la grande Tarquinia, avrebbero contribuito a fare grande la città disposta ad accettarli.
«Avrai le opere e i monumenti. Oltre alla perizia delle mie maestranze, ci aiuterà il tesoro che è giunto da Corinto ed è stato ingrandito dagli Etruschi con la loro passione smodata per il lusso.»
Aveva proposto al re di finanziarlo. Il re rifletteva col volto impenetrabile. E lui aveva sempre di più la certezza che fosse un uomo pericoloso. Ormai credeva fermamente che avesse bruciato vivo il suo predecessore con la moglie e i figlioletti. Ma non solo per brama di potere, soprattutto per amore di Roma. Questa città trovava uomini che l’amavano più di se stessi e per lei avrebbero commesso qualunque delitto. Intanto sentiva che il re era molto attirato, ma qualcosa lo bloccava. Poteva immaginare cosa.
«So che oggi il tuo referente a Tarquinia è il potente principe Murinas, e lui, se ci accoglierai, ti sarà nemico. Ma io lo conosco e so che non ha amici. Invece i Silqetenas, se Tanaquil diventerà una cittadina stimata di questa città, ti saranno molto grati. La loro posizione a Tarquinia migliorerà e anche la tua cambierà in meglio. Inoltre, alcune città etrusche non vedono l’ora di mettere le mani addosso a Roma. Io posso ingaggiare per difendere Roma il miglior mercenario, il Vibenna di Vulci è come un fratello per me.»
Anco Marcio non ci pensò oltre e lo condusse a fare un’altra breve passeggiata.
«Come farai a trasportare il tesoro?» mormorò.
Era un uomo pragmatico, aveva toccato subito il punto dolente.
«Per allontanarmi da Tarquinia mi aiuteranno la famiglia di mia moglie e il mercenario Vibenna.»
Ripresero la via di casa, ma la trovarono in lutto. Proprio il giorno prima la nave di Arrunte era tornata al porto di Tarquinia senza il nocchiero. Arrunte era morto difendendo la nave durante un assalto di pirati fenici.

✤ ✤ ✤

CAPITOLO IV

I preparativi erano stati rapidi e senza clamore. Già alcune navi cariche di materiali da costruzione avevano raggiunto la foce del Tevere senza dare nell’occhio […]


I Tarquini. La dinastia segreta
Mondadori
Data di uscita: 11 giugno 2019
ISBN: 9788852095368
Lingua: Italiano
432 pagine

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