LA NOTTE DI ROMA

Teutoburgo, germania, 9 D.C

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Prologo
Roma, primavera, 8 d.C.

la notte di Roma - Emma Pomilio, Libri Mondadori

 

Un gruppetto di sette o otto amici stazionava in un vicolo, aspettando l’alba con le ultime chiacchiere. Si parlava del nuovo equipaggio di Gaio Valerio, dei quattro cavalli arabi e del carro leggerissimo che gli erano costati un patrimonio. I servi si appoggiavano alle mura silenziose, e qualcuno schiacciava un pisolino con la faccia nascosta nel mantello.
«Dico che adesso anche Lucio se la vedrebbe brutta contro Gaio.»
«Ma che dici... Gaio non solo non ha una goccia del suo sangue freddo, ma nemmeno la sua agilità.»
«Quale agilità... gli serve solo se cade, qui si parla di cavalli.»
Si intromise un terzo: «È l’agilità che salva l’auriga in certi momenti».
«Certo, ma Lucio non è mai caduto» disse un quarto. «E secondo me Lucio potrebbe correre anche contro i professionisti. Se accettasse sarei pronto a scommettermi anche il vestito che porto addosso.»
«Se ancora è tuo. Ma lui col suo nome non se lo può permettere.»
«Io, se sapessi fare quello che sa fare lui, lo farei.»
«Tu il tuo nome l’hai già sputtanato. Lucio non lo farebbe mai.»
«Io dico che, prima o poi, Lucio sarà stufo di noi e lo farà.»
Gaio, il padrone dell’equipaggio senza rivali, ascoltava i commenti e sorrideva; stavolta ce l’avrebbe fatta, avrebbe lanciato i cavalli subito, Lucio non l’avrebbe più ripreso. Lucio rimaneva in silenzio. A volte correre contro gente come Gaio o altri amici, oltre che dilettantesco, era noioso, e l’esito era scontato. Quando si fa una cosa meglio farla bene; gli sarebbe piaciuto molto gareggiare contro chi aveva i numeri per batterlo. Non per soldi, questo mai, solo per passione, e per qualche esaltante attimo di rischio in grado di riempire una giornata vuota. Non poteva, però, avrebbe screditato la famiglia.
«Allora, Lucio... Parla!»
Ma le parole di Lucio non potevano rispecchiare i suoi pensieri. «State esagerando. Vorreste che nei nostri passatempi – e noi giochiamo insieme da quando ci reggevamo appena sulle gambe – entrasse della gente che fa tutto per denaro. Intendiamoci, è gente che io ammiro per il coraggio, ma porterebbe tra noi una competizione in grado di turbare la nostra amicizia, il piacere di stare insieme.»
«Ha ragione» disse Gaio. Aveva comprato il magnifico equipaggio solo per battere Lucio, che lo considerava un fratello e lo proteggeva, non se la sarebbe sentita mai e poi mai di gareggiare con gente del mestiere, è troppo pericoloso. Gli aurighi sono gente che di solito muore giovane.
«Ma sono pronto a sfidare Gaio quando vuole» disse Lucio.
Si udì un coro di voci: «Andiamo a dormirci sopra e ne riparliamo domani».
«Anche subito» disse invece Gaio.
«Il tempo di prepararsi» disse Lucio.
I giovani si dispersero, mentre gli schiavi si avviavano al Campo Marzio a organizzare la gara, imprecando contro quei padroni che girano di notte e dormono di giorno, quando a uno schiavo questo non è concesso. Lucio Cornelio rientrò in casa dalle scuderie. Gli stallieri che dormivano tra le bestie balzarono in piedi al suono della sua voce, strigliarono i quattro bai e prepararono il carro e i finimenti. Lucio intanto si sdraiò sulla paglia, a smaltire un po’ della sbornia di una notte passata in giro nelle taverne a giocare ai dadi. Mentre teneva gli occhi chiusi, uno schiavo gli allacciò le protezioni di cuoio sulle gambe e le braccia e gli infilò alti calzari. Quando tutto era pronto, Lucio si levò e indossò la divisa, una tunica corta, tenuta aderente da un corsetto di cuoio rigido, un elmetto di metallo senza le alette degli aurighi di mestiere, e al fianco un coltello, di cui saggiò prima l’affilatura. Mise di persona i finimenti ai cavalli, che provenivano da un allevamento spagnolo, e accarezzò a lungo il cavallo di sinistra, Sertorio, a cui affidava la vittoria. Entrava ogni giorno nella stalla a dar loro qualche frutto o a volte anche a strigliarli, non voleva che fossero affezionati ad altri più che a lui.
Uscì sul cocchio alle prime luci dell’alba. Si stava esaurendo il traffico notturno di carri, i venditori ambulanti sistemavano i loro banchi. Trattenne i cavalli al passo sulle strade, ma lasciò che si sbrigliassero quando apparve il Campo Marzio, dove i giovani romani cominciavano a radunarsi per gli allenamenti.
Nel poco tempo impiegato dagli aurighi a prepararsi, gli schiavi avevano impiantato gli elementi essenziali di un circo. Le mete erano delle grosse pietre rubate alle costruzioni che fervevano intorno e la spina un ammasso di legnami vari. Gli amici avevano portato altri amici, si era creato un discreto pubblico, e tutti erano intenti a scommettere. In un turbinio di bardature purpuree, criniere ingioiellate e redini dorate arrivò Gaio. Tirarono a sorte e la fortuna arrise a Gaio, a lui toccò la sinistra. Lucio e Gaio si piazzarono pronti in linea dietro una corda tesa. Coi suoi arabi veloci Gaio era tranquillo, stavolta Lucio non avrebbe riconquistato la sinistra.
Gli amici si fecero intorno a guardare i due aurighi ritti sui carri, le redini tra le mani. Soprattutto osservavano Gaio, e anche Lucio guardò il famoso equipaggio, i quattro arabi bianchi, piccoli e potenti. Il cavallo di sinistra, carico di amuleti, su una piastra d’oro attaccata al pettorale portava scritto il suo nome, Victor. Il carro era dorato, leggero e robusto, e anch’esso carico di amuleti. Ma, pensava Lucio, se Gaio affidava la vittoria contro i suoi bai, che correvano con lui da due anni, ai cavalli appena conosciuti, ai loro nomi e agli amuleti... che godesse in pieno di quei momenti di popolarità, perché sarebbero finiti presto.
Lucio non credeva negli amuleti e non amava addobbare i cavalli, voleva che la loro fiera bellezza fosse incontaminata, ma un auriga si deve comunque distinguere e sui finimenti dei suoi bai erano scritti in lettere d’oro i loro nomi. Nomi famosi a Roma, anche se Lucio non correva per le folle. Eppure, continuava a pensare Lucio, Gaio era un uomo di buon gusto, amante dell’arte, perché quelle eccessive dorature? L’unica spiegazione era che di quell’equipaggio avrebbe parlato tutta Roma. Dunque Gaio aveva un grande bisogno di pubblicità, forse cercava finanziatori per i suoi affari... Ma gli amici si stancarono a un certo punto di dire meraviglie dell’apparato di Gaio, lo sguardo si rivolse di nuovo, come sempre era stato, alla figura prestante e armoniosa di Lucio, che non aveva bisogno d’oro e di gioielli per attirare gli sguardi.
Gli schiavi avevano piantato in terra gli ultimi pali, a sorreggere l’ammasso di legnami della spina, e di corsa si allontanarono dalla pista. La corda fu sollevata. Lucio, con uno scatto, con i cavalli abituati al suo comando, recuperò la sinistra. Fu in quel momento, mentre gli balzava addosso, facendolo arretrare e relegandolo sulla destra, che da Gaio gli giunse uno sguardo di antipatia malcelata; si trattò di un solo istante, ma Lucio fu certo che fosse una malevola antipatia.
I carri presero velocità. Anche se aveva conquistato il primo posto, Lucio doveva stare molto attento, tener d’occhio la spina e la meta per non urtarle, ma non discostarsi troppo dalla sinistra, e continuamente gettare anche uno sguardo indietro, al suo avversario, perché non fosse lui a urtarlo nella smania di passare in testa. Erano già stati compiuti tre giri e sembrava chiaro a tutti che Gaio non avrebbe riconquistato la sinistra e nemmeno avrebbe potuto superare Lucio a destra. Urlando il suo nome gli amici incitavano Lucio, l’invincibile. Nessuno di loro avrebbe mai immaginato quali fossero diventati i pensieri di Lucio mentre teneva alte le redini e, con il solo schiocco, senza mai usare la frusta, portava i cavalli a vincere.
“Gli amici sono la cosa più importante per un uomo, per un Romano. E a me in particolare, oggi, cosa rimane se non i miei amici? Un uomo senza amici è un nulla, non solo di fronte alla società, ma anche di fronte a se stesso. Devo stabilire un rapporto, se non di parità, che è impossibile, almeno di quasi parità, o perderò Gaio, il mio amico più caro. Non è ricco come me, non è un atleta come me, a detta di tutti è meno bello di me, ma è un uomo che di solito dimostra equilibrio e buonsenso, che mi ha sempre voluto bene e, forse, se vincerà, concluderà qualche buon affare che gli farà pensare di potersi mettere alla pari con me... Devo lasciargli il suo momento di gloria, o addebiterà a me tutti quei soldi che ha speso...”
I carri volavano sulla pista, gli amici urlavano. Quando Lucio prese la decisione di far vincere Gaio, erano già stati compiuti cinque giri. Affidava tutto a Sertorio; di solito al cavallo di sinistra affidava la vittoria, stavolta gli affidava la sconfitta. Era prossimo alla meta più distante dagli spettatori, gli sembrava poco probabile che gli amici capissero cosa stava facendo. Incitò Sertorio, e poi, mentre aggirava la meta a una velocità folle, allentò le redini e lo colpì duramente. Sertorio, che non aveva mai sperimentato la frusta da lui, balzò in avanti per sfuggirgli. In un istante il carro si ritrovò a destra. Lucio sperava che Gaio ne approfittasse subito per recuperare la sinistra. E Gaio tentò, ce l’aveva quasi fatta, ma fu maldestro. Prese troppo larga la curva, il suo cavallo di destra urtò Sertorio e il suo carro urtò il carro di Lucio che sobbalzò. I cavalli di Lucio, spaventati e senza guida, nella loro corsa folle uscirono di pista, una ruota cozzò su una pietra. Lucio fu proiettato in alto coi pezzi del carro che si fracassava e cadde con agilità. Fu trascinato a terra dalle redini tese ancora avvolte intorno alla mano sinistra, estrasse il coltello con la destra e le tagliò. Rimase per qualche momento a terra illeso ma stordito. I cavalli continuarono la corsa e dopo un istante passarono al galoppo vicino a Lucio tre dei suoi schiavi che andavano a recuperarli.
Poi una mano lo aiutò a rialzarsi, e non era un amico, gli amici erano tutti intorno al vincitore. Ad aiutarlo era Emilio, il liberto di sua nonna Emilia, un uomo discreto che si vedeva poco in giro per Roma, stava sempre in casa, pronto a ogni desiderio della sua benefattrice. D’altronde la casa enorme conteneva tutto per lui, che non era uno spirito avventuroso. Un po’ ironico guardava Lucio sconfitto; era stato lui a insegnargli l’alfabeto e a reggersi in sella, prima che in casa entrassero i precettori. Lucio fece un cenno interrogativo in direzione degli amici.
«Oh... sì. Gli amici... Dicono che rimbalzi come una palla. Mi sembrano piuttosto contenti della tua sconfitta» disse Emilio. E poi aggiunse: «Emilia ti cerca».
Lucio entrò nelle stanze di Emilia da un giardino tenuto incolto dove lei concedeva di entrare solo a Emilio e Lucio. Le piante erano disposte in maniera casuale e due antilopi provvedevano a tenere bassa l’erba. La fontana era una rupe da cui l’acqua cadeva in un piccolo stagno invaso da erbe palustri. Un posto insolito che rispecchiava il carattere anticonformista di Emilia.
Anche se Lucio usava sparire per giorni, questa era la prima volta che Emilia lo faceva cercare. Lui se ne stava chiedendo il perché con ansia, un’ansia che lo accompagnava da mesi. Tutte le sue congetture convergevano su una donna affascinante che si era rivelata molto pericolosa, Giulia, nipote di Augusto.
Emilio lo introdusse e disse ai clienti di attendere ancora, la signora li avrebbe ricevuti di lì a poco.
Emilia era seduta nel punto più illuminato della stanza con uno specchio in mano, circondata dalle ancelle. Dedicava molte cure al proprio corpo per il grande rispetto che aveva di sé e anche di chi viveva accanto a lei ed era costretto a guardarla. In un angolo c’era un’edicola consacrata a Ebe, cui lei stessa ogni giorno offriva fiori e primizie. Quando Lucio entrò nella stanza, Emilia lo vide riflesso nello specchio e congedò le ancelle. Questo la diceva lunga sull’importanza della loro imminente conversazione, pensò Lucio, e si chinò a baciarla sulla testa. Lei rimase seduta, in sottoveste, con i gomiti sui braccioli, aggraziata anche col suo atteggiamento altero, ma sembrava a disagio e si guardò intorno con sospetto prima di parlare a bassa voce.
«Figliolo, che c’è di vero nelle chiacchiere che si fanno su te e una certa signora?»
Emilia osservava ogni cambiamento nel volto di Lucio, che si sentì stanato, abbassò gli occhi e non rispose alla domanda. Lei ritenne di avere avuto una risposta.
«Non ho parole. Ti sei dato la zappa sui piedi.»
«È successo...» disse Lucio. Eppure aveva sempre pensato che essere l’amante di una donna libera fosse pericoloso. Preferiva la compagnia di mime e danzatrici belle e colte, che non avevano la condizione sociale per offendere l’amor proprio di una moglie. Ma tutta la sua cautela abituale era andata a cozzare con la passione di una donna importante.
Giulia aveva capeggiato una banda di giovinastri che si diceva si dessero a qualunque dissolutezza. Ma le cose non si erano fermate là, la banda aveva ordito una congiura contro Augusto. Si diceva addirittura che Giulia fosse al corrente dell’intenzione di uccidere il nonno. Lucio aveva fatto parte di quel gruppo solo per partecipare a qualche festa, era stato notato da Giulia e per breve tempo ne era stato l’amante. Del complotto era venuto a conoscenza dopo, quando erano cominciate le indagini. L’episodio sembrava finito, ormai, con la morte o l’esilio di tutti i congiurati, accusati di lesa maestà o di immoralità come amanti di Giulia. Giulia era stata esiliata per immoralità. Erano tempi in cui alcune accuse di immoralità servivano a mascherare i sospetti di tradimento. I delatori avevano intascato i premi, e, a quanto si diceva, nessuno dei complici di Giulia girava ancora libero per le strade di Roma. Ma il lavoro delle spie non ha mai fine e Lucio sentiva aleggiare intorno a sé un’oscura minaccia. Quello che lo terrorizzava era la voluta confusione tra amante e complice, tra immoralità e tradimento. Nel clima che si era creato, in mano a un tribunale senza scrupoli, la sua breve relazione con Giulia poteva diventare delitto di lesa maestà e un processo a lui poteva fruttare al fisco il suo patrimonio e al delatore un sesto di quel patrimonio.
«Che ne è stato della tua aspirazione a vivere tranquillo, a evitare la politica per non andare a riverire chi comanda e bastare a te stesso con i tuoi amici scapestrati?»
Il tono severo di Emilia diventò lamentoso, il mondo le era crollato addosso quando uno schiavo le aveva riportato le più succulente chiacchiere delle case dei suoi amici.
«Mi sono trovato a scegliere tra la padella e la brace.»
«Uh... lascia stare. Eviti il nonno e diventi l’amante della nipote.»
Passarono un po’ di tempo in silenzio a riflettere, la donna astuta e navigata e il giovane in piedi accanto a lei.
«Se l’avessi rifiutata ti lascio immaginare le conseguenze» disse infine Lucio, con un filo di voce, in tono di scusa. «Chi sono io?»
«Uno dei Corneli.»
«Ma loro sono diventati dèi. E poi, nessuno a Roma rispettava le leggi sull’adulterio. Credevo che andarci a letto avrebbe consolidato la mia già ottima fama di vizioso e basta. Ho scelto la cosa più piacevole.»
«Forse solo il pericolo la rendeva piacevole» disse Emilia.
«Non mi ricordo neppure, credimi, ho paura da troppo tempo. Ma in quel momento non pensavo a un grande pericolo, non pensavo a quanto male potevo fare a tutti noi, credevo che per sua nipote lui avrebbe chiuso un occhio. Lo ha sempre fatto. E così sarebbe stato, se non si fosse inserita nella faccenda la politica. Comunque... è stata una cosa senza importanza...»
«Questo lo credi tu. Se Augusto ha fatto delle leggi qualche volta vorrà applicarle.» Un lampo passò negli occhi di Emilia. Abbassò la voce quasi a un sussurro e Lucio si chinò per ascoltarla. «I muri hanno orecchie in questa casa. Oggi di buonora è stato qui un messo del tribunale, voleva interrogarti, ma si è lasciato corrompere, non aspettava altro. Così sono riuscita a ottenere che tu venga interrogato in casa. Un breve colloquio riservato lo ha definito il messo mentre incamerava i tuoi soldi.»
Lucio la baciò di nuovo sui capelli, ancora una volta lei lo aiutava.
Nel giardino solitario, una figura alta di donna, celata da un mantello, si sporgeva a osservare l’interno della stanza attraverso un foro che sbucava in un angolo alto dell’altare di Ebe, dove il riverbero delle lampade votive sui fiori ne confondeva la luce. Ma non riusciva a udire più niente, i due stavano in guardia e si erano messi a parlare sottovoce. Dal mantello estrasse una mano lunga e nervosa e chiuse il foro prima con un mattone, che aveva dei brandelli di stoffa incollati e non fece rumore, e in ultimo con un pezzo di intonaco, che combaciava perfettamente nel muro.
«Certo, io sono ancora Emilia in questa nostra città. Ma se tu non riuscissi a essere convincente... Che dirai?»
«Negherò» disse Lucio. «Non c’è nessuno in grado di collegarmi a lei, solo lei e un paio di miei amici. Gli altri, un portiere e una serva che mi apriva la porta della sua camera, sono stati torturati. Da quello che so la serva è morta in seguito alle torture e non sembra che mi abbia nominato. Aveva ben altro da dire. Il portiere non ha parlato. Giulia è partita per l’esilio e non mi ha mai messo di mezzo...»
«Chi sono gli amici?»
«Gaio Valerio e Minucio...»
«Allora uno dei due...»
«No, non è possibile.»
«Ma c’è un delatore, se il messo è stato qua. E l’ipotesi dell’amico non si può scartare» disse Emilia. «Quel delatore ha sparso la voce per Roma. La voce è nata come un pettegolezzo. Chi meglio di un amico può essere un delatore? E... sei sicuro che con la cospirazione tu non c’entri?»
«Sì, sono sicuro, non sono stato informato di nulla, credo anche di conoscere il motivo dell’esclusione: la gente mi considera un indolente dedito solo ai piaceri, un ragazzo colto e piacevole, grande atleta, uno che può farti vincere una scommessa, ma senza carattere.»
«Non ti vedo molto contento, ma l’hai voluto tu.»
«Già... comunque non sono l’unico nobile che non potendosi dare alla politica si è dato alla caccia, alle corse e al gioco d’azzardo.»
«È una soluzione comoda. Ma tu hai recitato troppo bene la tua parte. E quel soprannome, l’Auriga... un Cornelio con quel soprannome da circo...»
«Non lo trovo disdicevole, indica che so fare almeno una cosa per cui ci vuole fegato. Ho bisogno di pensare questo di me, o il giudizio degli altri finirà per infiacchirmi davvero.»
«Il prezzo che paghi per non diventare un cortigiano è troppo alto. Forse dovevi accettare il sacerdozio che ti avevo procurato, ti avrebbe fatto stimare di più.»
«Per vestirmi come un buffone e cantare le lodi del principe? Appartenere a un circolo esclusivo serve a dare valore a chi è privo di talento, e io non sono...»
«Certo. Forse dovevi ritirarti in campagna. Non te l’ho mai suggerito per tenerti vicino, per puro egoismo.»
«Ma non l’avrei fatto, amo troppo Roma.»
«E adesso credi di cavartela mentendo.»
«Scusami, hai ragione. Ma la mia intera vita è una menzogna e credo che la migliore difesa sia non cambiare atteggiamento, desterei delle vere preoccupazioni se dimostrassi di avere delle idee proprio adesso.»
«Forse è diventata una tua seconda natura?»
«Forse. Che ironia... Comunque, per un po’ di tempo me ne andrò.»
«Quando lei ti ha messo gli occhi addosso, allora dovevi fuggire.»
«Già. Tu hai sempre ragione. Me ne vado in Germania con l’esercito, è un posto che mi piaceva tanto da bambino. Abbandono la caccia, le danzatrici, le gare con i carri, tutte le mie occupazioni inutili. L’Auriga se ne va, è riuscito a dare fastidio comunque. Ma c’è qualcosa che mi attrae, in Germania, rivedrò Arminio. Andremo a caccia insieme, me lo ha promesso quando è partito. Così anche là avrò la possibilità di fare cose inutili.»
«Forse fuggire non servirà a niente.»
«Ma sì, per un po’ non vedranno la mia faccia e non penseranno a me.»
«Vedranno le case, le terre, i magazzini, le navi. I delatori non si saziano mai. Ma tu parti tranquillo, io mi darò da fare a modo mio; prima dovrò rabbonire tua moglie e tua madre, e poi troverò le ruote da ungere.»
Almeno avesse lasciato un figlio per tenere in piedi la famiglia, se il padre fosse stato eliminato dalle spietate leggi della politica, pensava Emilia. Ma il figlio non era venuto. Le ancelle rientrarono ed Emilia, con una profonda ruga sulla fronte, riprese a dedicarsi alle cure di bellezza quotidiane e alla vestizione per ricevere i clienti.
Fuori della porta le voci si alzavano, la folla aumentava. Sembrava la vita di sempre, nella stessa casa, con gli stessi amici, con le stesse ricchezze. Eppure, in un momento in cui a Roma pareva regnare la concordia, Emilia vedeva la libertà sfuggirle di mano, più che nel momento della sconfitta, quasi cinquant’anni prima, quando era stata costretta a fuggire da Roma, e poi era stata riammessa, con il patrimonio quasi intatto, per generosità del vincitore, Augusto. Era ritenuta una donna all’antica, una mosca bianca, una che pretendeva ancora di dire ciò che pensava. Cominciava a sentirsi isolata e odiava i nobili, che prima consideravano la repubblica come una loro proprietà e poi, sotto il dispotismo, per avere una briciola di potere, erano diventati torpidi, docili, deferenti, ma ancora più arroganti, falsi, e spesso delatori. Emilia li odiava perché li temeva.
«Non hanno onore» mormorava, «dietro le vuote parole di cui lo rivestono, onore significa per loro non svelare mai i propri vizi per salvaguardarli insieme alla forma, nascosti nei recessi delle loro anime e di quelle dei loro servi complici, ruffiani e assassini. Alla fine credono davvero che l’onore sia il buon giudizio degli altri, stare sempre dalla parte giusta. Sono diventati sudditi.»

✤ ✤ ✤

CAPITOLO I

Germania, estate, 9 d.C.

Le legioni erano nei quartieri estivi, nel territorio dei Cherusci. La porta dell’accampamento che guardava sul fiume era aperta. Battelli da carico romani erano legati al molo. Romani, Cherusci e altri Germani si dedicavano ai loro commerci e a baratti di ogni tipo. I mercanti romani preferivano commerciare vicino alle legioni da quando, non molto tempo prima, per una ribellione improvvisa, alcuni dei loro erano stati uccisi e dei militari crocifissi. Calava la sera, presto tutti i Romani sarebbero rientrati nell’accampamento e i legionari avrebbero sprangato le porte. I Germani se ne stavano andando, in gruppi scomparivano tra gli alberi o si facevano traghettare sul fiume. Quinzio, il mercante, non era soddisfatto, non era andata granché bene quella giornata. Aveva contrattato a lungo una partita di pelli da rivendere in Gallia, che gli era stata soffiata all’ultimo momento. Si guardava intorno, non voleva considerare chiuse le trattative, era quasi tempo di tornare ai quartieri invernali e i suoi carri non erano pieni. Gli si accostò un barbaro che gli aveva già venduto delle splendide pellicce. All’improvviso gli fece luccicare per un attimo davanti agli occhi qualcosa che a Quinzio sembrò un’ambra grossa di un caldo color miele. Dai gesti cauti del Germano l’ambra doveva avere delle compagne altrettanto belle; il barbaro gli fece poi un cenno come per dire “Seguimi”. Trattative riservate. Aveva rubato le ambre a uno dei presenti, pensò Quinzio.
Si allontanarono discretamente fino alla foresta, e poi tra i larici, su un sentiero che diventò una pista buia appena battuta. Il barbaro alto camminava spedito e Quinzio, grasso e pesante, stentava a tenergli dietro. «Allora? Dove sono queste ambre? Manca tanto?»
«Siamo arrivati.»
Quinzio udì un fruscio dietro di sé e non fece nemmeno in tempo a voltarsi che si sentì afferrare e immobilizzare. Gli assalitori si mostrarono, Cherusci, e ne arrivarono altri a cavallo, al passo, lentamente, erano già in attesa da quelle parti. Quinzio riconobbe Arminio, Segimero e altri nobili cherusci, capi di clan numerosi. Vide un piano premeditato in quello che succedeva, era caduto in una trappola e c’era di mezzo qualcosa di grosso. Si divincolò gettandosi ai piedi di Arminio, che era amico dei Romani, e baciò ripetutamente il suo calzare sporco di fango. Arminio dall’alto, in sella, lo guardava senza espressione.
«Nobile principe, mi conosci, sono un brav’uomo, amico dei Cherusci. Sono un civile, sono solo un mercante di nessun valore, e ho famiglia, ho figli... Che mi succede? Perché sono stato attirato qui? Mi vogliono uccidere?» «Niente di personale» rispose Arminio.
La sua voce era piatta, grigia, senza espressione come il suo volto e Quinzio sentì affievolirsi la speranza riposta in lui, ma continuò a pregare.
«Sei un cittadino romano come me, hai combattuto per Roma, i Romani ti sono riconoscenti, ti hanno fatto cavaliere. Sei un amico personale del comandante Varo, di Lucio Cornelio, non è una cosa che concedono facilmente, soprattutto Cornelio. Sono certo che tu meriti la loro amicizia. Intercedi per me, ti prego. Ti prego in nome di quello che hai di più caro, la tua bella moglie Tusnelda.»
«Tusnelda non avrebbe pietà. Mi dispiace Quinzio, sei solo il primo che è capitato a tiro. La tua voglia di fare affari ti ha perduto; non sei prudente, è stato facile farti uscire dal campo al tramonto.»
Quinzio fu afferrato di nuovo e fatto montare a cavallo con le mani legate dietro la schiena. Poi il drappello si mosse. Cavalcarono allontanandosi dall’accampamento e l’unica voce che si sentiva era quella del mercante, che continuava a pregare Arminio, chiamandolo valoroso soldato, Romano e amico, e poi barbaro senza onore, sporco traditore, viscida serpe che i Romani si allevavano in seno, senza ottenere mai risposta.
Era il momento più caldo della giornata, ma nella foresta non è mai molto caldo, di rado i raggi del sole raggiungono il sottobosco. Vicino a una fonte, la luce che si faceva strada tra le fronde sembrava accecante. L’acqua scorreva limpida tra i sassi, ma, arrivata più in basso, non trovava uno sbocco ben definito e si spandeva all’intorno, lentamente, sotto la volta oscura della selva, creando un interminabile acquitrino, il luogo prediletto dal cinghiale. Nascosti tra i cespugli, Arminio e Lucio erano appostati ai lati di una strettoia, fra le rocce della fonte e un sottobosco impenetrabile, dove era stata tesa una rete. Stavano immobili, in attesa, pronti con le lance e un coltello appeso al fianco; ognuno poi teneva di scorta uno spiedo da caccia, che serve ad affrontare la belva da vicino e finirla. I servi di Arminio avevano scovato un branco di cinghiali nell’acquitrino e ne stavano spingendo uno sul terreno asciutto, verso la trappola.
Le urla dei servi e i latrati dei cani si avvicinavano sempre più. Infine il cinghiale comparve e arrivò presso la rete. Arminio e Lucio furono svelti a farla cadere, e l’animale vi rimase imprigionato. Arminio disse: «Tocca a te, sei tu l’ospite».
Mentre Arminio ancora restava nascosto, Lucio uscì dal nascondiglio e colpì al collo con la lancia il cinghiale, che si accasciò a terra.
«Una bella bestia, peserà seicento libbre» disse Lucio, «tua moglie avrà una buona provvista per l’inverno, ma a me non è piaciuta questa caccia violenta e rumorosa. Quest’animale era condannato. Preferisco la caccia dell’altro giorno, con l’arco.»
Una lunga attesa vicino a un ruscello in un nascondiglio scelto bene e poi la comparsa del cervo che fiutava sospettoso.
«Ma voi Romani praticate la caccia con la rete, pensavo che ti avrebbe fatto piacere. E non credere che non sia pericoloso, il cinghiale avrebbe potuto vederci e assalirci, invece di farci il favore di incappare nella rete» disse Arminio uscendo dal cespuglio. «E poi ti invito a casa mia per la parte migliore, le costole cotte sulla brace.»
«Mah... Sì. Quelle anch’io le preferisco alla carne di cervo, se sono ben sgrassate.»
«Sempre il solito schizzinoso.»
Si udì uno strepito forte, e vicinissimo. Lucio, che era ben visibile, allo scoperto, estrasse il coltello. Comparve un altro cinghiale, una femmina coi piccoli nelle vicinanze, che piombò addosso a Lucio e lo inchiodò a terra. Lucio stava appena toccando terra che già colpiva con il coltello, ma senza trovare punti vitali, riuscendo solo a ritardare l’inevitabile. Vide le zanne avvicinarsi alla sua faccia, ma improvvisamente la bestia perse vigore, anche se tentava ancora di aggredire. Arminio le aveva immerso tutta la lama dello spiedo nel fianco e respinse gli ultimi attacchi, mentre Lucio si alzava del tutto illeso e si avvicinavano i servi di Arminio con i cani.
«Non avevo mai adoperato questo spiedo romano» disse Arminio, «ha dimostrato la sua efficacia.»
Fecero capolino i piccoli, con le loro caratteristiche striature bianche sul dorso.
Quando li vide ritornare insieme ai servi, che portavano in spalla quarti di cinghiale e spingevano davanti a sé i piccoli, la bella moglie di Arminio, Tusnelda, strillò di gioia per quell’abbondanza, corse ad aggiungere legna al fuoco e chiamò le serve a preparare la carne da salare. I due cacciatori sedettero accanto al fuoco, dove Tusnelda stava cuocendo le costole sulla brace e il grasso profumato sfrigolava. Tusnelda era bionda, di un biondo fulvo, era alta e robusta, ma aggraziata; non poteva nascondere la sua bellezza nemmeno dietro il grembiule schizzato di grasso. Non sembrava amare i Romani e Lucio si accorgeva che non lo aveva in simpatia, ma la guardava comunque, senza nascondere la sua ammirazione per lei. Arminio prendeva l’ammirazione di Lucio per sua moglie per quello che era, un giusto tributo senza secondi fini alla bellezza da parte di un uomo che sapeva apprezzarla.
«Non mi hai mai parlato di lei» disse Lucio indicando Tusnelda, «perché sei arrivato a rapirla?»
«Il sangue selvaggio dei miei antenati scorre ancora dentro di me, e lei era la donna che volevo, bella e appassionata.» Era la donna degna del capo che stava diventando, era una regina, ma questo Arminio non poteva spiegarlo a Lucio.
«Che ti piacesse lo capisco, è molto bella, e riesco a intravedere anche la passione di cui parli. Ma rapirla... mi sembra una cosa strana da parte tua» disse Lucio.
«Non avevo occhi che per lei, e lei nemmeno mi guardava, intanto la fama della sua bellezza era arrivata lontano. Suo padre non mi voleva come genero, dando in sposa una figlia così bella voleva acquistarsi ben altre alleanze che Arminio, aveva ricevuto proposte da uomini importanti. Il padre non ama l’oro e il potere che ne deriva, ama la prosperità per la sua famiglia, ama vedere sempre bei quarti di carne appesi nelle sue dispense, possedere pellicce e coperte in abbondanza per tutti durante l’inverno e lino candido finissimo per le vesti delle sue donne. Gli avevano promesso interi armenti in cambio della sua bella figlia, e per lei una vita da signora, con una numerosa servitù. Per questo l’ho rapita, e mi sono tirato addosso l’ira di Segeste e di un sacco di altra gente, non ero abbastanza importante per sposarla secondo le convenienze.»
«Ma adesso lei sembra contenta.»
«Sì... ha imparato a sopportarmi.»
«E se non avesse imparato a sopportarti? Ci hai pensato?»
«No, mai. È stato meglio così.»
Lucio era contento di aver ritrovato Arminio, apprezzava molto la sua passione per la cultura di Roma, ma da quando lo aveva visto nel suo ambiente, a fare il barbaro, come lui stesso diceva, aveva compreso quanti sforzi facesse per coltivare quella passione, e lo stimava ancora più di prima. Arminio non era particolarmente bello, ma grande e forte, e attribuiva un’importanza enorme alla forza, che gli dava distinzione e potere tra i barbari; era insieme svelto e armonioso, tanto da sembrare più piccolo. Aveva occhi chiari, verdi con pagliuzze dorate, era perfettamente rasato e portava cortissimi, come un militare, i capelli rossicci. I suoi vestiti erano un misto di romano e barbaro. Sopra brache di pelle indossava un mantello da legionario. Aveva sempre detto a Lucio che le brache sono molto più comode delle tuniche e che la possibilità che gli si scoprisse il sedere lo metteva a disagio. E poi qualcosa del barbaro doveva avere, o sua madre non lo avrebbe più riconosciuto. Parlando di sé si definiva barbaro, e questo metteva in risalto le sue urbanissime qualità. Aveva combattuto al fianco dei Romani e Augusto lo aveva fatto cavaliere per i suoi meriti di guerra. Invitato dal principe a Roma, dopo alcuni tentativi andati male, aveva eletto suo domicilio per più di un anno la casa di Lucio. L’ospitalità è un dovere su cui non si discute per i Germani e Arminio ne aveva approfittato senza farsi problemi, mangiando e bevendo, vestendosi al meglio e scopandosi l’amante in carica di Lucio, la bella mima Dafne. Si sa che se un uomo ha concluso un contratto d’affitto per una donna col suo padrone pretende di avere l’esclusiva per tutto il periodo; forse al barbaro Arminio la cosa era sfuggita, ma Lucio non credeva che potesse sfuggire all’Arminio romano, che aveva imparato a pensare proprio da Romano. Era stata quella sua noncuranza che glielo aveva reso simpatico, all’inizio.
Lucio ringraziò Tusnelda dell’ospitalità e, prima di andarsene, le promise in dono una pezza di stoffa egizia, ottenendo da lei solo un vago cenno del capo. «Ti dispiace per Lucio Cornelio, non è vero? Non ne parli mai... Ma è un Romano come gli altri» disse Tusnelda a letto, tra le braccia di Arminio. «No, non per me» disse lui. «Per me è un amico. Mi dispiace davvero tanto che si trovi qui in questo momento in cui sono obbligato a fargli del male. È quello che mi ha insegnato di più, e fra non molto capirà a cosa mi sono serviti i suoi insegnamenti. Mi ha insegnato con gentilezza, non è stato mai arrogante verso il barbaro che a Roma non sapeva come comportarsi. Gli altri invece erano arroganti... se lo erano... Lucio è orgoglioso di essere Romano, ma è un uomo rispettoso degli altri e delle loro usanze.»
Arminio gli voleva bene, aveva sempre apprezzato la sua squisita ospitalità, il suo disinteresse per il denaro. Quando l’aveva visto arrivare, gli era dispiaciuto che il suo amico dovesse trovarsi coinvolto in una guerra in cui i Germani avrebbero cercato la vendetta di tante sconfitte. Non si sarebbero saziati presto di bere sangue romano. Ma, purtroppo, a ognuno la sua scelta di campo, a ognuno il suo destino.
«Mi hai insegnato a odiare i Romani, ora perché questo Romano in particolare dovrebbe piacermi?» disse Tusnelda.
«Perché gli voglio bene, a modo mio e se non interferisce nei miei piani. Ho capito di lui tante cose che lui non mi ha detto; è un uomo così discreto, non parla mai di sé. Forse, in fondo in fondo, si disapprova. In qualche modo mi fa pena, è uno che non riesce ad adattarsi a un nuovo stato di cose. Ma debbo farti un esempio, o non capiresti, tu non conosci Roma. Che farebbe il figlio che avremo, se in uno scontro fra me e Hadir, il mio nemico peggiore, Hadir vincesse, si appropriasse di ogni potere e non permettesse più una libera scelta dei capi, come tra noi si è sempre fatto? Nostro figlio, allevato da noi, da te che sei così orgogliosa, si adatterebbe a essere un suo seguace? Anche tra i Romani, come tra di noi, ci sono state delle guerre, Augusto ha dovuto combattere per prendersi tutto il potere. L’avo di Lucio fu sconfitto, ma Augusto gli permise di tornare a Roma. Lucio, allevato dalla figlia dello sconfitto, non si piega a fare niente che piaccia al vincitore, se ne sta da parte, nel suo mondo privato. Ma credo che adesso abbia commesso degli errori...»
Arminio si alzò presto, rimase ancora un po’ seduto sul letto, sfiorando delicatamente il volto calmo della moglie, rievocando gli esordi del loro amore. La sua indifferenza quando lui alle feste ne cercava lo sguardo... la sera del rapimento...
Lei era al torrente a lavare i panni, accompagnata da due servi per portare i cesti. Si sporgeva a immergere una veste nell’acqua, quando comparve Arminio al galoppo e la sollevò portandola via. Non emise neppure un fiato, sapeva che i servi non si sarebbero messi contro Arminio e la sua forza leggendaria.
Quando Arminio la appoggiò a terra, in casa, Tusnelda si guardò intorno e osservò tutto, ma non guardava lui, che non la importunò per due giorni e non le parlò mai, non voleva spingerla a proferire qualche minaccia, a cui poi volesse prestar fede. Il terzo giorno, quando la vide annoiata, cominciò a parlarle, a raccontarle della sua vita a Roma. Con questo riuscì a interessarla, così le parlò delle donne romane, dei vestiti, dell’educazione dei figli, delle cerimonie. Infine lei cominciò a guardarlo e gli fece delle domande, si stupiva della mancanza di libertà delle Romane. Da allora lo osservò e lo valutò. Lo conosceva poco, mentre lei cresceva Arminio era alle dipendenze di Roma. La casa di Arminio non era povera, non mancava niente, ma non c’era grande abbondanza. Le serve cucinavano buone carni e verdure fresche, ma senza sprecare; erano serve trattate bene che usavano con rispetto la roba del padrone come se fosse propria, come se volessero accrescerla. Tusnelda osservava, si chiedeva perché Arminio stesse diventando tanto famoso, un punto di riferimento per i Cherusci, se non poteva nemmeno offrire grandi banchetti per ostentare ospitalità e richiamare genti lontane con cui vantarsi. Si chiedeva, e questo i suoi occhi schivi non lo potevano nascondere, come avesse avuto l’ardire di rapirla e di offendere suo padre Segeste. Trovò in lui le qualità e le risposte alle sue domande, cominciò a guardarlo ogni tanto di sfuggita negli occhi. Arminio aveva l’impressione che Tusnelda percepisse il battito furioso del suo cuore mentre si sentiva osservato da lei.
Un paio di giorni dopo il tribuno Lucio Cornelio passeggiava sul molo, tra i rudi soldati di confine e i barbari biondi giganteschi. Si fermò di fronte a una scena che gli si prospettava divertente, una contrattazione per delle ambre tra il nobile Hadir e il mercante romano Vestinio. Hadir, grosso, coperto di cicatrici, i capelli lunghi color rame raccolti sulla sommità della testa, era circondato da un gran numero di seguaci. Soppesava tra le mani un sacchetto di monete, un primo pagamento. Ridendo dei segretari del mercante che gli presentavano le loro scartoffie, li scansava delicatamente, come oggetti fragili. Vestinio gli stava lontano e non prendeva le ambre direttamente da lui, che le estraeva dai recessi dei suoi abiti pieni di pulci, ma le esaminava con aria annoiata a debita distanza nelle mani di un segretario.
Hadir era un ospite fisso ai banchetti dei Romani, a volte si sdraiava amichevole vicino a Lucio e gli faceva dono delle sue pulci. Gli scoccò un’occhiata furba, come per dire “stai a guardare”, poi si frugò addosso e tirò fuori il pezzo forte. Evitò la mano di Vestinio, che stavolta si era fatto avanti per primo, e lo diede al segretario, che rimase a bocca aperta. Intanto Vestinio allungava il collo, di fronte a lui brillava, come se fosse dotata di luce propria, l’occasione della sua vita.
Hadir estrasse le monete d’argento dal sacchetto che andava soppesando e le contò. «Ho viaggiato due mesi» disse, «mi sono addentrato in territori ostili, per arrivare a scovare questo splendore, tanti uomini sono morti per difenderlo. Ne voglio duecento sacchetti come questo.»
A quanto pareva Hadir non sapeva contare oltre un certo numero, ma aveva capito bene l’alto valore del frutto delle sue rapine, un pesante bracciale a forma di serpente. La donna importante, alla quale era appartenuto, aveva avuto occasione di piangere, se aveva incontrato Hadir. Il corpo era formato da smeraldi e rubini di forma irregolare, in parte ancora grezzi, sulla testa d’oro piatta brillavano occhi di rubino. L’incastonatura d’oro non lucida si confondeva con la parte ancora grezza delle pietre. Il segretario passò i polpastrelli sul dorso, avvertendo con un brivido di ribrezzo qualcosa che ricordava le scaglie di un rettile, infine saggiò la flessibilità delle spire. Il valore del gioiello non era solo nelle pietre, ma nella fattura, nella bizzarra estrosità di una grande oreficeria barbarica piena di colore.
Vestinio ritrovò la parola: «Ti darò l’equivalente in oro di cento sacchetti. Dovrò chiedere un grosso prestito e... sai com’è... con gli interessi arriverò a sborsare centotrenta sacchetti».
Hadir ripose l’oggetto al sicuro tra le pieghe dei suoi panni, e rimase in attesa, in silenzio. L’equivalente in oro gli faceva storcere il naso, perché voleva l’argento per fare regali a più riprese ai suoi seguaci, e poi non si sarebbe accontentato di cento sacchetti, sapeva che quello era il mercante che poteva sborsare grosse somme, inutile perdere tempo con altri. Vestinio al suo arrivo aveva fatto girare la voce che cercava cose sensazionali per la moglie del vecchio principe dei Romani, Augusto. Ma cosa cercare nella povera Germania selvaggia? Pellicce, quarzo rubino dalla terra dei Marcomanni e pietre per cammei, e poi lunghi capelli di donna, ambre e, se capitava, il frutto delle rapine dei Germani a danno di altri popoli, di cui solitamente i Germani non comprendevano il valore. Ma stavolta non era così.
«Ti do centocinquanta sacchetti.»
La faccia di Hadir rimaneva ermetica e il mercante non esitò più. «Centosessanta» disse, riempì di monete un sacchetto, prese un papiro e ci scrisse sopra di suo pugno. Poi si avvicinò a firmare sotto gli occhi del barbaro.
«Questa è la promessa che ti faccio di acquistare il gioiello, eccoti un acconto, un sacchetto. Mi procurerò gli altri fra circa una settimana, devo andare a Magonza per farlo. Inoltre centosessanta sacchetti sono troppo ingombranti, è un trasporto difficile, perciò debbo chiedere la protezione dell’esercito. Sarebbe meglio poterti pagare in oro. E qui, vedi, c’è il mio sigillo, ma anch’io vorrei una garanzia.»
Il barbaro non degnò di uno sguardo il papiro e lo gettò nel fiume. Con una mano prese il sacchetto e con l’altra afferrò il mercante per un braccio, con la ferma intenzione di condurlo in qualche posto. Gli bastò uno sguardo per dissuadere il segretario dal seguirli, ma accettò Lucio, il suo commensale abituale, una specie di osservatore. I tre si inoltrarono per un breve tratto nella foresta. Arrivati a un torrente, Hadir scostò delle frasche e sollevò un corpo che per metà giaceva nell’acqua. Al cadavere tutto ustionato con ferri roventi mancavano mani, naso, orecchie e occhi.
«Ecco» disse, costringendo gli occhi di Vestinio vicino alle orbite brulicanti di vermi del cadavere, […]


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Omnibus 2008
Storia e avventura
ISBN 9788804574309
420 pagine
14,0 x 21,5 cm
Cartonato con sovraccoperta
In vendita dal 18 marzo 2008